VISIONI

Abdullah Ibrahim, il pudore essenziale della bellezza

MUSICA - Torino Jazz Festival regala una notte insieme al leone sudafricano
LORRAI MARCELLO,TORINO

Sia ringraziato il cielo! Quello con la c minuscola. Non fosse stato per la pioggia, alle sei di pomeriggio di domenica il piano solo di Abdullah Ibrahim si sarebbe svolto nella cornice non proprio sopraffina di piazzale Valdo Fusi, e si sarebbe forse un po' perso nella dimensione dell'ascolto all'aperto e del concerto gratuito: ben venga naturalmente la gratuità, a cui, all'insegna della festa e del richiamo turistico, è improntato il Torino Jazz Festival, da venerdì 26 aprile al primo maggio alla sua seconda edizione, e ben venga la possibilità anche per un pubblico non necessariamente motivato o addirittura casuale di approfittarne, e di avere magari la sua folgorazione. Ma ovviamente ci sono cose che a quel tipo di dimensione si prestano di più e altre di meno. Provvidenziali, ci si sono messe le previsioni meteo, che hanno consigliato agli organizzatori di ripiegare sul Teatro Regio.
Dove Abdullah Ibrahim ha fatto il resto, e la scelta di non amplificare lo strumento ha contribuito a creare, in una sala al limite della capienza, un miracolo di concentrazione e raccoglimento. Oggi il pianismo del settantottenne musicista sudafricano non si impone con l'incisività ritmica, gli ostinati, la densità che lo hanno caratterizzato in anni ormai piuttosto lontani. Anziché turgido, il suo lirismo è oggi pacato e parco; una vena di asciutta malinconia percorre il suo inanellare temi accarezzati come pensieri che in un assorto rimuginare fra sé e sé affiorano senza necessariamente consolidarsi in uno sviluppo compiutamente definito. Piano piano, emergono anche degli elementi del suo pianismo più eclatante e tipico di una volta, ma in maniera delicata, come decantata dal tempo. Vengono fuori anche gli umori della musica della sua Capetown, il profumo della musica popolare sudafricana. Niente è formula, amo lanciato al pubblico: proprio in questa estrema discrezione, questo modo di porgere con grande tatto quel mondo, ha, per chi ha amato e interiorizzato quell'Abdullah Ibrahim, un vigore poetico fortissimo.
Per tutta una parte Ibrahim si tiene prevalentemente sul registro medio e basso della tastiera. Poi qualche momento più leggiadro, una maggiore vivacità ritmica, un blues scarno ancorato ad un giro di note gravi. Tutto senza soluzione di continuità: dopo un'ora, come Ibrahim aveva chiesto, da dietro le quinte gli fanno segno. Chissà se c'è un segno anche per il bis, che, rispondendo ad applausi vivissimi, dura mezz'ora d'orologio, sempre senza soluzione. Ad un certo punto emerge un suo classico, The Wedding, un tema meraviglioso, commovente, su cui altri andrebbero a mani basse: ma Ibrahim non ne «approfitta», lo espone con un grande pudore e con un approccio antidecorativo che rendono la bellezza di questo passaggio quasi insostenibile. E in questo Ibrahim doi oggi pare cogliersi una sorta di saggezza della vecchiaia, un sentire la vanità dell'esteriorità di qualcuno che ha vissuto intensamente e va a colpo sicuro all'essenziale.
Un altro ultrasettantenne, Mulatu Astatke, veterano della musica moderna etiopica, ha poi tenuto banco domenica sera in piazza Castello, con un godibilissimo set di fronte ad alcune centinaia di spettatori che hanno stoicamente tenuto duro fino alla fine sotto la pioggia che implacabile sta martellando il Torino Jazz Festival. Che una manifestazione con la dimensione organizzativa e il cospicuo budget del Torino Jazz Festival non avesse previsto una soluzione di ricambio per tutti i concerti all'aperto fa specie. Intanto rispetto alla prima edizione, con la direzione artistica di Stefano Zenni, la kermesse ha cominciato a porsi un problema di qualità della proposta. Ma c'è ancora da fare. Anche per avere un cartellone che, non manchi anche di punte di audacia.

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