Può sembrare sorprendente, ma Samson et Dalila di Saint Saens era assente dai cartelloni dall'Opera di Roma da esattamente cinquant'anni, e anche per questo l'occasione di una nuova produzione nella capitale non andava mancata. La scelta del collettivo della Fura dels Baus, con la costola destra Carlus Padrissa, con Zamira Pasceri e Jaume Grau, a occuparsi della regia (Alex Ollè invece ha appena firmato a Lione un magnifico «doublebill» Dallapiccola-Schoenberg) sembrava stimolante sulla carta, ma lo spettacolo è riuscito a mantenere le promesse soltanto in parte. Le grandi scene corali del primo atto erano risolte con effetti di movimento e luci di notevole impatto, ma il baccanale finale cadeva per totale assenza del clima di sensualità decadente intrinseco alla musica, che dovrebbe essere percepito indipendentemente dall'ambientazione o chiave di lettura scelta. Invece i lunghi rituali sadici di «bondage» e «dog training» , con sacrificio umano finale, risultavano macchinosi e prolissi mentre era più centrata l'idea di tramutare i giganteschi fiori danzanti della seduzione di Dalila nelle colonne del tempio. Suggestivo lo spandersi di rossi ramages-sinapsi dal sanguigno disegno di corallo, che facevano da sfondo alla scena della seduzione del secondo atto, ma colpiva anche l'infelice tenuta «beefcake» di Sansone, una specie di massiccio turista rasta in pantaloncini da bagno ( Chu Uroz firmava i costumi ). Nel complesso i diversi piani visivi dello spettacolo, con proiezioni, movimenti scenici di coro e mimi sovrapposti e intrecciati alle azioni dei protagonisti, garantivano un'immediata sorpresa e efficacia visiva, ma a lungo andare apparivano disomogenei e ingeneravano un effetto di distrazione. Charles Dutoit, frequentatore sporadico delle scene operistiche, ha offerto una lettura di taglio molto solenne, ma non ha sacrificato la ricchezza di colori della partitura, così difficile da rendere per la sua natura doppia di oratorio e opera drammatica, e per il raffinato incrocio tra grandeur operistica francese e rilettura della tradizione oratoriale settecentesca. I tempi ampi del direttore non preoccupano Olga Borodina, che, tolto qualche eccesso nei gravi e la solita dizione francese «personale» (poisson e poison hanno significati molto diversi!), è una Dalila di prim'ordine, praticamente senza confronti oggi. Ben in parte il Sacerdote di Dagon di Elichin Azizov e l'Abimelech di Mikhail Korobeinikov , come gli altri ruoli di fianco, mentre la vocalità insolitamente chiara di Aleksandrs Antonenko supera i molti ostacoli della partitura con musicalità e dizione ottime, tratteggiando un Samson meno macho, ma proprio per questo perfettamente plausibile, specie nel terzo atto. Positiva la prova dell'orchestra, assai più alterno il coro. Teatro non esaurito ma buon successo, nonostante qualche vivace contestazione allo spettacolo a fine serata. Sabato ultima recita.