Dai dati dell'ultimo bollettino sulla pena di morte di Amnesty International «gli Stati Uniti d'America sono stati l'unico paese del continente a eseguire condanne a morte: 43, come nel 2011».
Come al solito la Cina risulta essere l'incontrastato detentore mondiale delle esecuzioni capitali, pur se statisticamente, in rapporto alla popolazione, il «democratizzato» Iraq è andato ben oltre, uccidendo 129 persone, cioè addirittura quasi il doppio rispetto alle 68 giustiziate l'anno precedente nello stesso paese.
Ma tornando agli Stati uniti, il 2011 e il 2012 sono stati due anni in cui si è ucciso soltanto con la tecnica dell'iniezione letale, mentre nel 2010 si era utilizzato, nello Utah, il plotone d'esecuzione e in un altro caso, in Virginia, la sedia elettrica.
Ancora riguardo alla vecchia «Old Sparky», oltre all'esecuzione del 2010 si ricorda soprattutto quella passata sotto silenzio all'inizio di quest'anno, sempre in Virginia. Il 16 gennaio 2013, il pluriomicida Robert Gleason, che aveva rifiutato ogni tipo di assistenza legale, è stato infatti «accontentato» nella sua macabra richiesta di sostituire dal menù di morte l'iniezione letale con la più cruenta sedia elettrica. Naturalmente nessuno può dire quale tra le cinque tecniche di soppressione usate negli Stati uniti sia effettivamente più dolorosa per il condannato, ma di certo la sedia elettrica ha, sia sui testimoni chiamati ad assistere e sia nell'immaginario popolare, degli «effetti speciali» ben più marcati di quelli rappresentati dall'iniezione velenosa. Le direzioni carcerarie che prevedono ancora metodi di uccisione come la sedia elettrica generalmente tendono a scoraggiare i condannati a ricorrervi, non certo per questioni etiche o umanitarie, ma semplicemente perché un prigioniero che prende fuoco tra le urla non è un buon viatico per promuovere e giustificare l'istituzione capitale.
Non ci è dato sapere però quali siano le posizioni del presidente Obama, che riguardo all'argomento ha sempre assunto posizioni di cautela, se non addirittura pilatesche, a differenza dei suoi predecessori sia democratici che repubblicani.
Il democratico Clinton, ad esempio, quand'era Governatore dell'Arkansas, interruppe la sua campagna presidenziale per autorizzare l'esecuzione del ritardato mentale Ricky Ray Rector, la cui uccisione tramite iniezione letale risultò una lunga agonia di 50 minuti.
Inoltre Clinton sottoscrisse un pacchetto di leggi repressive (Antiterrorism and Effective Death Penalty Act) che permisero di condannare a morte più facilmente, elevando i reati per cui era prevista la pena capitale da 2 a circa 60. Il suo successore, George Bush jr, uno dei più accaniti sostenitori dell'omicidio di Stato, trovandosi la tavola già apparecchiata ha potuto concentrarsi su altre questioni.
Sotto il mandato presidenziale di Bush ricordiamo solo gli ultimi due casi, abbondantemente trattati da questo giornale: quello di Stanley Cox Williams, ex leader della famosa gang dei crips, ravvedutosi in prigione e in seguito candidato addirittura al premio Nobel per la pace, e quello del disabile e infartuato 76enne cherokee, Clarence Ray Allen, entrambi uccisi con iniezione letale nel braccio della morte di San Quentin, in California.
In ogni caso, i dati attuali confermano un lento, graduale miglioramento negli Usa, sia riguardo alle condanne che alle esecuzioni capitali, concentrate soprattutto, per il 77%, in quattro stati: Texas, Oklahoma, Mississippi e Arizona. Sembrerebbe dunque che la propensione per la forca degli Statunitensi, scesa attualmente al 60%, stia progressivamente recedendo, pure se brucia ancora il referendum californiano del 6 novembre scorso, che ha respinto la richiesta di abolizione con il 52% di favorevoli alla pena di morte, a fronte del ben più corposo 71% di favorevoli che si ebbe in un referendum del 1978.
Anche il più sprovveduto storico o sociologo sa però bene che questa tendenza al ribasso potrebbe subire nuove impennate forcaiole. «Impennate» attualmente ammorbidite più da questioni economiche che da autentici ravvedimenti morali (un caso di pena di morte costa ai contribuenti più dell'ergastolo senza sconti di pena) e un'eventuale nuova campagna di propaganda dove «sbattere il mostro in prima pagina» sarebbe probabilmente più che sufficiente a disilludere gli abolizionisti più ottimisti, riportando le lancette dei diritti umani indietro nel tempo.