Il caso vuole che due visioni di Venezia si confrontino a Roma in questi giorni, con identica capacità di attrarre un vasto pubblico, anche se per motivi diversi. Da un lato i ritratti dogali e i paesaggi veneti di Tiziano, figura imprescindibile della pittura occidentale, in mostra alle scuderie del Quirinale, dall'altra la cupa Venezia romantica delle congiure e degli intrighi desunta da Byron e raccontata in musica da Verdi e da Francesco Maria Piave ne I due Foscari. Tutt'altro che prossimo alla verità storica, il titolo verdiano ottiene invece pieno riconoscimento musicale con la direzione di Riccardo Muti, che muta orizzonte marino, dopo il genovese Boccanegra, per ritrovarne uno altrettanto congeniale, con un rinnovato approdo al Verdi giovanile. Ancora una volta il taglio interpretativo di Muti è volto a esaltare la qualità profonde della scrittura verdiana, riuscendo a mostrarne doti di complessità e raffinatezza ben superiori a quanto non vorrebbe la vulgata consueta sui melodrammi degli «anni di galera». Partecipe e attentissimo negli accompagnamenti delle voci, Muti ottiene dall'orchestra e dal coro (preparato da Roberto Gabbiani) - in ottima forma - la duttilità necessaria per tratteggiare le atmosfere cupe e dolorose che pervadono l'intera partitura, conferendole anzi una mobilità che non sempre il semplice incedere drammaturgico riesce di per sé a garantire. Se poi mantiene un'asciutta misura nello sbalzo delle esplosioni più affocate, Muti esalta i passaggi di introspezione dei personaggi principali, specie negli assiemi e nel finale, con la grande scena della morte del vecchio doge. Ottima la prova di Luca Salsi, che affianca a una bella solidità vocale una profondità di accenti davvero notevole, che garantiscono al personaggio un rilievo a tutto tondo. Accanto a lui Francesco Meli incarna uno Jacopo dal vigore giovanile emozionante, limpido nel canto e impeccabile nel cogliere i suggerimenti della buca. In assoluto la sua migliore prova a Roma, e uno dei più bei ritratti verdiani delle ultime stagioni. Il soprano bulgaro Csilla Boross, che in due recite riprende il ruolo di Lucrezia da Tatiana Serjan, negozia forse qualche agilità della sua micidiale sortita , ma domina con sicurezza e proprietà di accenti il resto della parte, crescendo in intensità atto dopo atto. Fra gli altri spiccano il cupo Loredano di Luca dall'Amico e Antonello Ceron, Barbarigo.
La vicenda fitta di trame, odii, sete di potere e ingiustizia non ha esaltato l'immaginazione di Werner Herzog, che si è limitato a chiedere a Maurizio Balò (che oltre alle scene cura anche i bei costumi) una Venezia plumbea, incorniciata da rigide pareti cementizie, in cui è assente il mare, mentre il portato di livore e vendette lungamente meditate si muta in cumuli di neve gelata raccolta degli angoli della stanze. La stessa neve libererà la sua forza allo spirare di Francesco Foscari, mentre Venezia elegge il nuovo doge. Per il resto la regia presenta un taglio tradizionale, senza scossoni o invenzioni di sorta. Sarebbe almeno bello poter credere che gli inquietanti giullari e acrobati convocati per la scena di apertura del terzo atto siano un rimando a due opere di cui nei Foscari compaiono significative prefigurazioni, Rigoletto e Traviata.
Sala pienissima e entusiasmo del pubblico, che ha praticamente quasi esaurito le recite rimanenti (le repliche sono infatti previste in cartellone fino a 16 marzo).