CULTURA

Quando l'architettura costruisce il paesaggio

INCONTRI - Lina Bo Bardi e Oscar Niemeyer, una visione «brasiliana» dello stare nello spazio
CRICONIA ALESSANDRA,

Nel 2012, esattamente il 5 dicembre, se n'è andato alla veneranda età di 104 anni Oscar Niemeyer, l'ultimo degli architetti moderni. Ironia della sorte il 5 dicembre è anche il giorno di nascita di Lina Bo Bardi, architetta romana trasferitasi in Brasile dopo la guerra che con Niemeyer e altri - Lúcio Costa, João Batista Vilanova Artigas, Affonso Edoardo Reidy, Rino Levi, Roberto Burle Marx, i fratelli Roberto - è stata tra i protagonisti dell'incredibile stagione moderna dell'architettura brasiliana.
Oscar e Lina, dunque. Nulla di più distante verrebbe da dire pensando alle vite, ai temperamenti, alle rispettive opere. Mentre l'uno, nato a Rio de Janeiro si esprimeva nelle forme morbide della baia e del Pão de Açúcar modellando edifici accattivanti e sempre belli - Oscar amava ripetere che ciò che lo attraeva «è la curva libera e sensuale, la curva che incontro nelle montagne del mio paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle onde del mare, nel corpo della donna preferita (...)» -, l'altra, laureata a Roma alla facoltà di Valle Giulia alla fine degli anni trenta, progettava solidi volumi in cemento con il solo appeal della semplicità e chiarezza geometrica. Eppure i due, a dispetto delle apparenze, avevano un sentire comune, una visione «brasiliana» dell'architettura che si ritrova nel modo di stare nello spazio e di rapportarsi alla natura di cui le rispettive case private sono un manifesto.
Per quanto la critica sostenga che la residenza Canoas di Niemeyer sia stata ispirata alle case di vetro di Mies van der Rohe e di Philip Jonhson, ci sono diversi elementi che fanno pensare, invece, che uno dei principali riferimenti sia stata la Casa de Vidro che Lina progettò e costruì per sé e per il marito nel quartiere Jardim Morumbi di San Paolo nel 1951, qualche anno dopo il loro arrivo in Brasile. Oscar conosceva bene la casa per esserci stato in diverse occasioni come documentano alcune fotografie che ritraggono i due seduti al tavolo da pranzo, e c'è da ritenere che ad averlo particolarmente colpito, lui così sensibile alla natura, sia stato il modo in cui Lina era riuscita a «creare un ambiente 'riparato' dove vivere difesi dal vento e dalla pioggia, partecipando al tempo stesso a ciò che c'è di poetico e di etico nella natura, compresa la tempesta», come lei stessa aveva scritto sulla rivista Habitat (1953).
Effettivamente la Casa de Vidro, nascosta com'è tra la fitta vegetazione del giardino tropicale (fatta piantare da Lina al momento della costruzione), evoca un rifugio anziché una normale dimora, e ad accentuare la sensazione di un abitare spartano in mezzo alle chiome degli alberi, è pure la scelta di sollevare la casa dal suolo poggiandola su pilastrini in acciaio piantati nel terreno scosceso: cosicchè sia possibile accedervi dal basso tramite una scala priva di finiture, compreso il corrimano. Partecipare ai «pericoli» del mondo, eliminare ogni mediazione tra il dentro e il fuori, realizzare una comunione totale: questa la filosofia che Lina ha in testa quando progetta la propria casa brasiliana e che torna in quella che Niemeyer costruì nel 1953 per sé e la famiglia nel barrio Canoas, nello splendido paesaggio della foresta tropicale. Posta sulla sommità della montagna affacciata sulla baia di Rio de Janeiro per godere della vista della città e del mare, la Canoas è un volume di cristallo dalle forme sinuose, quasi un fagiolo irregolare, coperta con un solido tetto di cemento che funge anche da terrazza: e questa ingloba al suo interno un costolone di roccia a rimarcare la continuità tra artificio e natura.
Come la Casa de Vidro, anche la Canoas è un habitat in cui l'architettura della casa si fa metafora della capanna, seppure evoluta e confortevole, lasciando trapelare un sentimento di appartenenza alla terra e un immaginario dell'essere nel mondo ben diverso da quello europeo. In un paese dove la natura è rigogliosa e stupefacente oltremodo, ma anche invadente e insidiosa, cambiano inevitabilmente i rapporti: gli orizzonti sono campi lunghi, i panorami sono aperti e non esiste una distinzione netta tra le parti e gli spazi. Ma l'indefinitezza dei contorni che impediscono all'occhio di percepire «le astuzie e le sottigliezze della prospettiva» (E. Glissant, Poetica del diverso, Meltemi 2004, p. 11), non è un limite. Al contrario i confini sfumati, che non sono propri solo degli spazi ma anche in certo senso degli abitanti del Brasile, sono forieri di quell'idea di mescolanza che fa la forza della cultura latinoamericana e di cui Oscar e Lina sono stati formidabili interpreti. Per ragioni diverse ognuno dei due è stato infatti un migrante, l'una per dare seguito al suo talento e riuscire a costruire, l'altro per motivi politici. Sta di fatto che le loro architetture, non solo le case ma anche gli edifici pubblici, appaiono dei paesaggi inseriti nel tutto della natura e della città. Questo sono le opere di Oscar - la chiesa di San Francisco a Pampulha, il meraviglioso Copan, l'edificio ondulato versione carioca dell'Unitè d'habitation di Le Corbusier al centro di San Paolo, i monumenti di Brasilia, le «sculture» nel parco Ibirapuera; e questo anche i capolavori di Lina, il Masp e il Sesc Pompeia, ambedue a San Paolo.
Ora, dietro l'idea di architettura come costruzione di un paesaggio, si nasconde una visione della modernità come interpretazione non codificata dello spazio, ragionata di volta in volta secondo le occasioni e il programma: evidentemente ibrida. Partendo da queste premesse, soprattutto Lina ha saputo inventare degli spazi pubblici inediti. Nel Masp, il museo di arte di San Paolo, la decisione di sollevare la galleria vetrata appendendola a due enormi stampelle di cemento colorate in rosso fuoco, è servita a far passare la città liberamente al di sotto (come nella sua Casa de Vidro il volume sollevato lascia spazio al giardino tropicale) e a definire uno spazio pubblico in continuità con la strada, che è piazza di ingresso al museo, ipotetico spazio espositivo (come si vede in uno schizzo di studio), e al tempo stesso palcoscenico urbano per le arti di strada.
All'inaugurazione del museo infatti questo spazio fu infatti occupato da un tendone da circo, e ancora oggi vi si trovano trampolieri e clown insieme a musicisti e venditori ambulanti che lo usano per le loro attività. Anche il Sesc Pompeia è un luogo di spazi condivisi: la vecchia fabbrica di barili di petrolio recuperata e ampliata con due torri di cemento delle piscine e delle palestre, insieme con un cilindro-serbatoio dell'acqua per creare un centro sportivo, è lo scenario di un pezzo di vita urbana e di una convivialità che Lina aveva colto durante i suoi numerosi sopralluoghi preprogettuali, che sono diventati il tema conduttore dell'intervento per conservare «una piccola allegria in una città triste».
Viene a questo punto spontaneo osservare che soltanto in un altro mondo, fisico e culturale, rispetto a quello, Lina è riuscita a trovare il contesto in cui dar seguito al suo talento di progettista. E colpisce che un grande come Niemeyer lo abbia riconosciuto, senza pregiudizi. In un articolo pubblicato sul quotidiano Folha de São Paulo, nel 1990, Oscar ebbe a scrivere: «Ricordo il giorno che visitai il Masp. Scrissi un messaggio a Lina pieno di ammirazione, 'è il più bel museo che abbia mai visto'».

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