CULTURA

Passeggiate romane con Caproni

CENTENARI - Il catalogo della mostra sul poeta e la «città del disamore»
CALANDRONE MARIA GRAZIA,

I poeti fanno della libertà il proprio mestiere, raggiungono una realtà più vera del vero appesi alla luce medianica delle parole: e sarò con Mafai sul Ponte Garibaldi, un ponte com'è nel nostro cuore, più vivo e vero che «nella realtà». Qualcosa un tempo li ha portati di peso via dal mondo, ma in cambio ha dato loro il dono di vedere un mondo alla seconda potenza, una specie di radiazione luminosa o una sua area oscura che abbaglia più dell'evidenza evidente e solida della realtà. Così, la caproniana noia di sé non coincide con una cupa e cruda pulsione di morte, bensì con un lungo esercizio di disinteresse nei propri confronti, che finisce per significare rinnovamento della voce, ormai di altri se non corale. E questo tanto meglio può avvenire in una - o meglio: a partire da una - città come Roma, dove i ponti, sul pachiderma fluviale giallo di urine, sono diffusi come archi voltaici tra vita e morte: una quasi perfetta metafora della lingua poetica, se Caproni descriverà se stesso come uomo Solo in una stanza vuota, / a parlare. Ai morti - dove morti rima con torti.
La voce corale di Roma e dei morti di Roma suona due volte nei poeti, perché contiene il canto melancholico della stratificazione delle rovine, che sono una cara compagnia e insieme un monito sul nostro presente - o addirittura declinano al futuro, sono macerie che crollano al futuro, fin che nel cuore aperto e chiaro del poeta s'insinua la visione di una Roma quale dismisurata città di bottegai: ora Caproni vede la città che lo ospita come un conglomerato sfacciato e insidioso nella sua vastità - mentre Genova gli splende nella memoria tutta fatta di luce scoscesa. Ma Genova è soprattutto lontana. Per Caproni, suo abitatore iniziale, la città-Roma è sinonimo vivo di libertà come l'albatro di Melville, ma, vivendo in essa, il poeta diventa l'albatro baudelairiano che non sa camminare sulla terra.
Forse perché il rovescio della libertà è l'indifferenza: l'attenzione di Simone Weil, che consiste nel mantenere ai margini del proprio pensiero le diverse conoscenze acquisite, è un fenomeno di concentrazione filosofica che una metropoli non può concedere. La metropoli invece è «distratta» - e lo sono la tradizione e la storia. Ma un poeta è un'antenna che cammina e una città così grande e profonda come Roma, non poteva che spingere ai suoi margini psichici chi con lei non avesse una consuetudine già infantile o chi, come Pasolini, non avesse eletto come propria patria d'esilio le sue borgate e i suoi ragazzi randagi, per sentirsi egli stesso sempre straniero e randagio: Caproni non amava la condizione dell'esilio come Melville e Pasolini, Caproni era tutto fatto di nostalgia.
Oltre alle caratteristiche dell'individuo Caproni, occorre però sottolineare quanto l'ondata nera del fascismo malignamente sommergesse la metropoli-Roma di Caproni. Il fascismo è contrario all'attenzione, è un disbrigo violento di pratiche vitali - e le sue conseguenze sono la guerra e una deportazione non più simbolica, che Caproni scoprì quando il settimanale «Il Politecnico» lo incaricò di indagare la vita nelle borgate romane nate dopo lo sventramento fascista. Questa opportunità rivela a Caproni una sgolata infanzia romana, quei bambini gettati senza padre né madre per le strade a contendersi un pallone, la disperata normalità di un gioco in uno sconfinato spazio di esilio. Le descrizioni che Caproni fa di Pietralata e di Tiburtino III sono da inferno dantesco: Roma è ormai l'esilio per Caproni, che pone la sua persona poetica dalla parte degli spatriati, sebbene goda di amicizie letterarie che immaginiamo splendide. Sopra tutti cammina Pasolini, con il quale Caproni macinava chilometri, parlando poco ma osservando molto, in un paesaggio ancora a pezzi per via della guerra.
Per comprendere il catastrofico e ironico disamore che corse tra Roma e Caproni, ci facciamo aiutare ancora da Melville e da Frénaud, autore che Caproni conobbe tanto da tradurlo. Se Melville scrive: Quantunque in molti dei suoi aspetti questo mondo visibile appaia fatto nell'amore, le sfere invisibili vennero fatte nella paura, Caproni dovette avvertire in Roma il brivido generato da uno strato di umidità sepolta e puntuta di ossa, il rovescio stregato del sole in rogo, l'incantamento aguzzo di ognuna delle pietre dette sante. La strega di Roma di Frénaud racconta una vista di Roma femmina e affatturata - e mette in scena, nel viscere esposto di lei, un sé autoriale, ambivalente e fratto. Roma è il risultato, esposto a tutti, della storia dell'uomo, la chiave della cui infelicità è una desolata mancanza d'amore.
Possiamo immaginare che Caproni patisse lo spettacolo del disamore nelle ere umane, che si concretizzava nella feroce espulsione dei lavoratori verso la discarica delle borgate, soggetti alla spinta centrifuga della megalomania mussoliniana. Caproni ripaga una tale evidenza con disamore eguale. Ma un animo simile al suo non regge a lungo, privato delle sue lanterne magiche - e dunque ecco che la città «eterna», con le sue evocazioni ultramortali, la grande curvatura dell'universo / ripresa in gloria dalla circonferenza del Colosseo (Frénaud), si muta in una prigionia che permette l'amore a distanza, di operare l'alchimia poetica con Livorno e con Genova quali potentissimi luoghi del rimpianto.
Tutto questo emerge con estrema chiarezza dalle pagine del catalogo della rassegna Giorgio Caproni - Roma la città del disamore ideata, curata e commentata con grandi competenza e passione da Elisa Donzelli e che - come scrive lo stesso Caproni a proposito di altre monografie edite da De Luca - mostra «un'idea vivente» del poeta, ne rivela l'ironica ferocia e la malinconia quasi infantile. Il disincanto, insomma, quel «disamore» che non ci si aspetta quando si è ancora pieni di stupore.

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