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Ilva, un nuovo diritto pubblico nell'economia

LUCARELLI ALBERTO,

Con l'Ilva di Taranto tornano di attualità i temi della democrazia economica e del diritto pubblico dell'economia, troppo frettolosamente messi in soffitta, e soprattutto troppo frettolosamente ritenuti in contrasto con una lettura strumentale del diritto europeo, in particolare laddove appiattito sulle regole mercantili e neo-liberiste della finanza e del mercato, imposte da interessi forti rappresentati dalla troika Bce-Fmi-Commissione, piuttosto che ispirato dal principio della coesione economico-sociale e territoriale che significa limitare l'attività d'impresa alla tutela del territorio, dell'ambiente, della salute, dei livelli occupazionali.
Ma in senso più generale, con il "caso Taranto", si pone all'attenzione il rapporto pubblico-privato, in relazione alla proprietà, alla gestione, ai controlli, alla tutela dei diritti. Dietro l'ipocrisia della contrapposizione tra diritto all'ambiente e diritto alla salute, da una parte, e diritto al lavoro dall'altra, si nasconde il progressivo processo di abbandono e di deresponsabilizzazione del pubblico dalle politiche industriali ed economico-sociali del nostro Paese.
I principi della democrazia economica, espressi dal testo costituzionale, seppur talvolta in maniera ambigua, sono stati calpestati, divenuti oggetto di trattative con le più squallide rappresentanze del mondo dell'imprenditoria.
Dunque, possiamo credere che la drammatica vicenda dell'Ilva di Taranto, con i delicati problemi di bilanciamento di diritti che solleva, costituisca un'occasione, seppur amara, per far rivivere alcune disposizioni della nostra Carta costituzionale, messe tra parentesi da decenni di liberismo e privatizzazioni forzate.
Dopo il disastro ambientale e sociale, ma soprattutto dopo l'inopinata cessione di sovranità del ruolo dello Stato nei processi economici, a vantaggio di prenditori di denaro pubblico, risorgono gli artt. 41 e 43 della Costitutzione, in considerazione dell'interesse strategico nazionale inerente alla vicenda.
Sembra risorgere anche il secondo comma dell'art. 41, troppo presto dimenticato, che prevede che l'iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e che il comma successivo dispone che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Insomma, principi sacrificati in nome della concorrenza che non ha rilievo costituzionale. L'art. 43, poi, prevede che a fini di utilità generale la legge possa riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.
Si tratta di una norma ben presente nel nostro ordinamento e suscettibile di trovare applicazione quanto meno in casi straordinari quale quello che ci troviamo a fronteggiare.
Mai come in questi momenti occorre fare leva sullo spirito solidaristico espresso dalla nostra Costituzione economica per far risorgere il diritto pubblico dell'economia, ponendolo al servizio dell'interesse generale (ambiente, salute, occupazione), depurato da dimensioni statalistiche ed autoritarie del passato e arricchito dalle nuove categorie dei beni comuni e della partecipazione.
Le istituzioni pubbliche non possono abdicare dal proprio ruolo e dalle proprie responsabilità, in considerazione dei preminenti fini di utilità generale che ricorrono nella vicenda e rispolverino, se necessario, istituti quali l'espropriazione, anche in considerazione che i processi di privatizzazione posti in degli ultimi vent'anni hanno costituito episodi di espropriazione in danno della collettività, depauperata di un patrimonio comune di beni, servizi, imprese.
L'Ilva deve rappresentare l'occasione per avverare l'utopia di una nuova governance aziendale democratica e partecipata, che si collochi oltre le avanguardie europee della cogestione e della cointeressenza, nel solco della Costituzione. Laddove vi siano preminenti interessi di rilievo nazionale, incidenti su una pluralità di diritti fondamentali, è possibile immaginare modelli di governo pubblico-partecipato, caratterizzati da una governance, in grado di coinvolgere lavoratori e saperi diffusi della cittadinanza attiva.
Questo, su scala diversa, è il modello che stiamo sperimentando a Napoli con l'azienda speciale Abc (acqua bene comune), il modello di impresa democratica, caratterizzata da cessioni di sovranità da parte della proprietà pubblica, a favore di gestioni aperti ai saperi diffusi e collettivi.
Una dimensione della partecipazione che si declina in proposta, gestione e controllo, dove quest'ultimo trova spazio in appositi comitati di sorveglianza composti da cittadinanza attiva e lavoratori.
Ripensiamo dunque l'ipotesi che imprese strategiche, intese quali portatrici di valori civili, sociali ed economici, e quindi quali beni comuni, ovvero beni di appartenenza delle comunità di riferimento, possano essere gestite, anche nel rispetto dei principi costituzionali, secondo i canoni della democrazia economico-partecipativa.

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