È bastato l'ascolto del preludio per dare il segno di quanto la lettura di Riccardo Muti del Simon Boccanegra, in scena al Teatro dell'Opera di Roma fino all'11 dicembre, non restasse nell'ambito dell'ordinario, e segnasse un nuovo momento del lungo percorso interpretativo del direttore con il teatro musicale di Verdi. Orchestra compatta, controllata, suono denso ma fluido, con una intensità commossa, una speciale «tinta», quasi aggrondata di pianto, che lentamente ha assunto la predominanza nel dipanarsi dell'intera opera. Il taglio interpretativo che infatti sembra prevalere nella lettura di Muti è quello del dramma privato, delle vicende drammatiche e dolorose degli affetti, degli amori, delle vendette, che intrecciano la vicenda complessa e, inutile negarlo, a tratti astrusa, della splendida partitura verdiana.
Non che i grandi momenti «pubblici» e politici passino in secondo piano, anzi il grande finale del primo atto è stato uno dei momenti più riusciti, la sapiente architettura verdiana servita perfettamente dai complessi del teatro dell'Opera, con una prova del coro (guidato da Roberto Gabbiani) di significativo rilievo. Tuttavia, è proprio nel delineare i sentimenti fra figlia e padre nei duetti fra Simone e Amelia, nel terzetto del secondo atto con Adorno e ancora nei duetti fra lo stesso Adorno e Amelia, e nel finale drammatico confronto fra Simone e Fiesco, direzione e concertazione hanno esaltato ogni risorsa della partitura e degli artisti, lontano da tentazioni muscolari o prosaiche, concentrandosi su una sapiente e misuratissima ricerca dinamica, con una sorprendente ricchezza della paletta timbrica. Su un altro piano lo spettacolo di Adrian Noble, che nell'insieme ricalcava, con un gusto da tableau vivant, i modi compositivi della pittura di storia italiana, ma nel complesso appariva poco ispirato e troppo risaputo, mentre le belle ma tronfie e imponenti scene di Dante Ferretti , che sembravano più adatte alla carezza della macchina da presa che alle luci del teatro, contribuivano a evidenziare una carenza di profondità, il cui senso la buca si sforzava invece a ogni istante di rinnovare, specie nelle celebri pagine «marine» o nel guizzo del rapido, livido fraseggiare di Paolo, che chiude in modo geniale il primo quadro del primo atto. Particolarmente infelice la scelta e posizione dell'ipotetica quadreria di Simone nel secondo atto.
Assai riusciti invece i costumi di Maurizio Millenotti e ben dosate le luci di Alan Burrett. Molto omogeneo il cast, in cui spiccavano Maria Agresta, Amelia, liricissima e mai matronale e l'Adorno di Francesco Meli, che senza abusare del suo bellissimo strumento conferiva al personaggio una luce e un vigore giovanile assai personale. Eccellente il Paolo Albiani di Quinn Kesley, ruvido ma abilissimo nel fraseggio, mentre George Petean, che ha sempre cantato molto bene, specie nel secondo atto, non è sempre riuscito conferire al personaggio di Simone lo spicco e la personalità necessarie. Dmitry Beloselskiy vestiva i panni di Fiesco con nobiltà, anche se il registro grave, nella recita di martedì scorso, non è parso sempre perfettamente a fuoco. Successo vivo, con molte chiamate.