CULTURA

Nel pronome «noi» l'idea di un nemico

IL SALE DELLA TERRA
TODESCHINI GIACOMO,

La determinazione della genealogia culturale e linguistica degli stereotipi che concettualizzano le tipologie della separazione e della inferiorità umana, psichica e razziale, e la narrazione della storia di queste rappresentazioni - come anche di quella delle associazioni inconsapevoli fra le immagini che queste retoriche portano con sé -, possono essere impostate a partire da uno studio della formazione lessicale e teologico-politica del «noi» (nos) occidentale europeo come soggetto collettivo carismatico. La nozione «Noi non siamo i cattivi» - ossia «Noi siamo i buoni» - ha dunque una sua storia, che può essere chiamata la storia delle rappresentazioni occidentali (europee) del diverso da «noi».
È in effetti molto utile determinare la nascita e la genealogia culturale ossia linguistica di queste immagini, ovvero la cronologia di questi modi di dire come anche delle associazioni inconsapevoli fra concetti che queste immagini o modi di dire portano con sé, per poter comprendere che gli stereotipi di superiorità o di inferiorità non sono l'esito di una maledizione che grava sull'umanità in quanto tale.
Un approccio possibile alla questione è costituito dalla analisi dei linguaggi cristiani patristici e medievali latini, ossia dei linguaggi episcopali (funzionariali e dunque non solo teologici, ma anche gestionali-amministrativi), come analisi di linguaggi dominanti e performativi che concretamente diedero forma comunicabile a nozioni composite in seguito latenti o visibili, pronte comunque a essere ricodificate sino, talvolta, ad apparire come modalità interpretative della realtà del tutto automatiche.
L'élite sacerdotale che di fatto governò l'Europa fra XI e XV secolo, se per governare si intende formare e definire le categorie di legittimo e illegittimo, consentito e non consentito, legale e illegale, funzionale al bene comune o contrario a questo bene, dentro la natura o contro natura, iniziò a classificare i gruppi sociali in termini di vicinanza o lontananza al/dal «noi» carismatico-apostolico che essi stessi rappresentavano quotidianamente e a cui dovevano fare riferimento le molteplici configurazioni sociali e dominative che articolavano l'Occidente in espansione economica e politico-militare. Nell'ambito di questa cultura sacerdotale condivisa da poteri laici in se stessi orientati a presentarsi come sacri nel senso cristiano del termine, si formò una rappresentazione di esclusione/separazione, funzionale alla identificazione ovvero alla definizione del perimetro di un «noi» inizialmente del tutto élitario (IV-IX secolo c.).

Un perimetro esclusivo
Questo soggetto autorevole e iniziatico, precocemente enfatizzato dall'insistenza e dalla ricorrenza per mezzo delle quali si caratterizzava il pronome «noi» (nos), si trasformerà gradualmente in un soggetto ampiamente collettivo, e pertanto in grado di rappresentarsi o di essere raffigurato nell'ambito di discorsi riassunti dall'espressione sintetica «bene comune» (bonum commune), significante sia nell'ambito discorsivo del mercato sia in quello delle relazioni interpersonali intese come sfera della politica o della religione.
Il nesso fra religione organizzata e definizione del perimetro costituito da un «noi» carismatico ed esclusivo, poi in grado di allargarsi a definizione sociale e comunitaria è stato d'altronde rilevato a suo tempo da Agnes Heller, nella sua Sociologia della religione (1970).
Il nos cristiano occidentale può essere individuato nella sua primissima origine a partire da alcune precise radici testuali. Ricordiamo qui solo due varianti fondamentali e primarie di questa tradizione; quella costituita dall'autorappresentazione della Comunità degli Apostoli come comunità perfetta perché testimone diretta dell'Incarnazione e della Resurrezione divina, così com'è contenuta in un testo fondativo della tradizione cristiana quale sono gli Atti degli Apostoli; e quella costituita dall'autorappresentazione della Comunità francescana originaria come comunità a sua volta perfetta perché imitativa di quella apostolica e perché testimone diretta della vita del Fondatore, Francesco, inteso come alter Christus («un secondo Cristo»).

La battaglia di Agincourt
Questa tipologia di base, antica e estremamente autorevole, configura un «noi» carismatico il cui potere e la cui autenticità riposano sul contatto diretto col Sacro; da essa scaturiranno innumerevoli repliche ecclesiastiche e laiche, e in essa si fonderà fra medioevo e età moderna una modalità di definizione linguistica dell'autorità governativa formalizzata nei termini di una vera e propria mistica dell'élite dominante. Un esempio notissimo di questa derivazione è il «noi» attribuito nel 1599 da William Shakespeare, nel suo Enrico V, all'élite sovrana vincente ad Agincourt nel 1415: «E sino alla fine del mondo il giorno di San Crispino e San Crispiniano non passerà senza che vengano menzionati i nostri nomi. Felici noi, noi pochi, schiera di fratelli; poiché chi oggi spargerà il suo sangue con me sarà mio fratello e per quanto bassa sia la sua condizione questo giorno la nobiliterà: molti gentiluomini che dormono ora nei loro letti in Inghilterra malediranno se stessi per non essere stati qui oggi e non parrà loro neanche di essere uomini quando parleranno con chi avrà combattuto con noi il giorno di San Crispino».
È in questa fase di modernizzazione del «noi» che - come ben si avverte nel testo shakespeariano - la dimensione di sacralità esclusiva si apre, nelle parole del Capo, a comprendere in sé un gruppo più vasto, di «fratelli» appunto, in grado di condividere il carisma e di avere quindi un nemico comune, in grado, essi soli, di essere uomini. Ma l'individuazione del «noi» a partire da un nemico da superare e sconfiggere era stata da tempo chiarita, ben prima che Enrico V contrapponesse i «felici pochi» al nemico francese di Agincourt: ed erano stati gli «ebrei», sin dai primi secoli dell'era cristiana a giocare questo ruolo di «non-noi», il ruolo degli altri, quelli che «ci» minacciano e finanche talvolta si spacciano per «noi».
L'inizio di questa polemica fra «noi» e «loro» dove «loro» è impersonato dagli judaei sta già con chiarezza nelle lettere di Paolo (ad Galatas 2, 14-16), per poi affermarsi come tema fondamentale in Agostino (Contra Judaeos VII 9, 57; Epistola 196). Da Girolamo ad Agostino, del resto, il testo dei Padri della Chiesa segue coerentemente la traccia di un discorso che nei cristiani, in «noi», vede e rappresenta gli «ebrei veri, quelli secondo lo spirito», mentre negli «ebrei» originari, in quelli che non riconoscono il Messia individua «gli ebrei secondo la carne».
L'ebraismo, l'alterità, diventano veri se realizzati dal Cristianesimo, se concretizzati da «noi», ma rimangono falsità, morta parola, se incarnati da quanti, ebrei di tutti i giorni, non accettano il Verbo cristiano, escludendosi dunque dalla comunità carismatica che negli Apostoli vedeva la propria premessa. Già qui essere «noi» significa manifestare pienamente la verità, essere i protagonisti. «Loro», i falsi, sono un'imitazione di «noi», un'ombra della verità; un inganno vivente.

Senza condimento
Un'immagine alquanto impiegata dalla tradizione episcopale cristiana occidentale, e di nuovo risalente alle Scritture, si propone poi come utile esempio dell'enfasi apposta al «noi» carismatico e alla sua inesorabile ricaduta in termini di esclusione di chi non appartenga al gruppo dei «fratelli». È la metafora del «sale della terra». Questa immagine, in origine (Matteo, 5, 13) applicata agli apostoli e alla loro capacità ma anche al loro dovere di convertire le genti al Cristianesimo, si trasforma, dal sesto secolo, in una potente raffigurazione dell'attitudine degli eletti che formano la compagine del «noi» a dare senso e intelligenza, a promuovere al grado di umanità piena gli «altri», quelli che, fuori dal cerchio incantato della Grazia, ancora non capiscono, brancolano nelle tenebre, si aggirano come bestie nella foresta dell'incredulità, dell'ignoranza, delle passioni. Dal sesto al dodicesimo secolo, questo modo di scrivere della conversione dei pagani, degli ignoranti, degli infedeli, conia, al di là del tema della conversione, l'abitudine linguistica, che rimarrà occidentale ed europea, a definire insensati (fatui, «senza sale», insapori, sciocchi, incompiuti) coloro che, non convertiti, non «conditi» dal sale apostolico, rimangono sprofondati nella loro greve carnalità, più bestie che uomini. Burcardo di Worms e Ivo di Chartres, fra undicesimo e dodicesimo secolo potranno scrivere, rivolgendosi ai vescovi loro confratelli che «se il popolo dei fedeli è il cibo di Dio, Noi siamo il suo condimento» (Decretum, VI, cap. 151). Il senso dell'essere, l'umanità che comunica con il Divino, la negazione della bestialità sono l'effetto di questo «sale»: è per mezzo di questo «condimento» che si perviene al «noi», che si entra a far parte del Gruppo, assumendo così un'identità superiore, un'identità veramente umana.
Chi non viene «salato» a dovere, oppure non sa distribuire il «sale» che ha ricevuto da autentico membro della comunità eletta, sarà subito paragonabile, ed è qui che la metafora si perfeziona, a Giuda, il finto apostolo, colui che significativamente teologi e predicatori chiameranno sin dall'alto Medioevo il «pessimo fra i mercanti», ma anche il «sale impazzito» (sal infatuatum): l'aberrazione massima, infatti, è rappresentata in questa storia di linguaggi e di condanne da chi, apparentemente membro a pieno diritto della fratellanza che costituisce il «noi», si rivela alla prova vuoto di intelletto e di senso, un «sale che non può salare», si rovescia infine nella nullità dell'altro da «noi», un vuoto di disperazione.
Scomponendo la metafora del «sale» che condisce o che non condisce, che conserva o che non conserva, e che cioè dà o non dà senso a persone e cose, si individuano dunque elementi in grado di definire un paradigma complesso costituito da: un soggetto collettivo dominante (nos episcopi); una massa di «gente qualunque» fidelis; un rapporto fra i due soggetti qualificato come condimentum, l'acculturazione cristiana intesa come «atto di insaporire» equivalente cioè all'atto di «conferire capacità razionali» e di «rendere inalterabili» (intrisi di un'umanità definitiva); la qualità ambigua di questo rapporto descritta come eventuale labilità della capacità del «sale» di salare/condire da parte di chi, presuntivamente, avrebbe questo dono.
È tuttavia proprio questa ambiguità, questa incertezza annidata nel cuore stesso del «noi», a scatenare nei testi e nelle politiche sovrane occidentali, una moltitudine di strategie autodifensive: se il non-senso, la bestialitas possono occultarsi anche fra «noi», sarà davvero obbligatorio difendersene, e ad ogni costo. Il soggetto allargato costituito dal nos della societas christiana nel suo insieme sarà quindi sempre più spesso, dalla fine del medioevo, chiamato e indotto a tutelarsi producendo modelli e stereotipi di diversità, ovvero attribuendo a chi non appartiene o non si immagina che possa appartenere al gruppo dei possibili eletti, una basilare incapacità di elaborare l'appartenenza, di identificarsi, cioè, a partire da un sistema di regole stabilito come sacro: antiche espressioni come «uomini animali» e nuove codificazioni dell'esclusione come quella cifrata dalla parola «infamia» diverranno equivalenti semantici della non appartenenza al «noi» carismatico.
Un esito importante di questo processo storico-culturale sarà, nei secoli della crescita economica e coloniale dell'Europa, il timore crescente di quanti parteciperanno in linea di principio alla società del «noi», di non appartenere alla società dei cittadini/fedeli: un timore non soltanto fantasticato come paura di un'accusa sfociante nell'allontanamento dell'esilio, del bando, della scomunica, dell'imprigionamento o nella definitiva estraniazione della morte, ma anche come sgomento di fronte all'ambiguità di una appartenenza sociale mai interamente confermata da segni incontrovertibili. Di qui comincerà a dipanarsi, in modi sempre più cifrati dalle terminologie giuridiche e giurisdizionali, dai linguaggi della politica e della religione, il problema della cittadinanza reale come situazione di appartenenza da definirsi in termini il più possibile oggettivi.

Persone incompiute
La codificazione di queste procedure discorsive e politiche in termini razziali - quella che conosciamo da poco più di un secolo - avverrà infine nella forma di una razionalizzazione a sfondo biologico e nazionale di elementi già da lungo tempo utilizzati per indicare sia la non appartenenza al «noi» carismatico, sia un'incertezza di questa appartenenza di per se stessa in grado di segnare persone e gruppi come umanamente incompiuti, come aberrazioni colpevoli e pericolose. Da ricacciare insomma nel buio donde provengono.

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