In un articolo apparso su il manifesto del 3 Novembre scorso, Piergiovanni Alleva ha fatto notare che la pretesa di Fiat di mettere in mobilità tanti lavoratori quanti ne ha dovuti reintegrare, accampando che ciò scompagina i suoi piani aziendali, non ha fondamento giuridico, perché contrasta con un principio generale del diritto il quale dice Nemo auditur allegans turpitudinem suam: nessuno può agire per ottenere rimedio a un danno che gli deriva dal suo comportamento illecito.
È un rilievo importante, del quale vorrei mettere in evidenza almeno due implicazioni.
Un principio generale è un giudizio pratico (cioè serve a consigliare come impostare le questioni controverse) che nasce dalla esperienza del diritto: principi come quello richiamato da Alleva hanno origine nel diritto romano, diventato ius comune nell'Europa medievale e rinascimentale e di lì ricolato nei codici e nelle leggi di tutto l'Occidente. Il fatto che la pretesa Fiat urti contro un principio generale del diritto significa dunque, intanto, che i giudici, i giuristi e gli avvocati che difendono i lavoratori non traggono ispirazione dal folklore di una morente provincia veterocomunista, che sarebbe l'Italietta, estranea alla cultura globale: ma da una intera tradizione occidentale, che è nata qui da noi, e di cui sono gli eredi.
È la tradizione che ha fornito la base di pensiero alla commercial and civilized society auspicata da Adam Smith, e a cui risalgono gli argomenti in forza dei quali la Corte di Giustizia europea oggi può giudicare discriminatorie le dichiarazioni pubbliche di un imprenditore che aveva detto che la sua azienda non avrebbe assunto marocchini perché ai clienti non piacevano: un mercato lasciato alle sue leggi, e cioè senza leggi, non contiene alcun progetto di società ed è distruttivo per la convivenza.
La seconda implicazione, che vien di conseguenza, è che la questione non può essere considerata problema meramente aziendale, interno all'azienda, come il governo è sembrato pensare.
Principi generali come il Nemo auditur furono sviluppati dai giuristi medievali e rinascimentali che assistevano, nei Comuni italiani, allo strapotere dei magnati che per 'difendere li averi' manomettevano il governo della città, abolendo il limite tra il proprio interesse e il bene generale. Per esempio i magnati, che da una parte ergevano monopoli per far salire i prezzi artificialmente, dall'altra pretendevano che gli operai, che secondo loro violavano le regole "aziendali" (magari per fare cosa innovative come tessere la lana col lino, vietatissimo dalla corporazione della Lana), fossero puniti dalle leggi della città.
Come se oggi, anziché reintegrare l'operaio licenziato perché non ha voluto salire su un ponteggio malsicuro, il datore chiedesse allo stato di punirlo per questa insubordinazione e incarcerarlo per suo conto (e beninteso a spese però dello stato, ghignerebbe Paperone fregandosi le mani). Facendosi interpreti della coscienza collettiva (sto citando a piene mani Alessandro Giuliani, Giustizia ed ordine economico, 1997), e contro gli abusi di una razionalità economica orientata solo al profitto che di lì a poco avrebbe tolto a tutti la libertà e la pace, quei giuristi svilupparono idee come la concorrenza leale, la libertà del commercio e dell'industria, la libertà di accesso al lavoro, la libertà della ricerca nella scienza e nella tecnica e contestarono la tesi, cara ai magnati, per cui i salari devono essere bassi altrimenti il popolo si impigrisce.
Essi sapevano una cosa, e la insegnarono al mondo: sapevano che c'è un mercato che fa bene alla città, e uno che le fa male. E che solo da un mercato consapevole dei suoi nessi con l'etica e col diritto viene la ricchezza delle nazioni.
Ecco perché la città ben governata si occupa di che cosa accade dentro l'azienda, e non la lascia a se stessa.