CULTURA

Schulhof, affinità elettive a Palazzo Venier dei Leoni

Collezioni / UN LASCITO DI 83 OPERE D'ARTE
MIGLIORE TIZIANA,

È accaduto qualcosa di importante per il welfare in Italia. In risposta a un atteggiamento della politica che, da ogni punto di vista, è predatorio - di fondi, risparmi, servizi, sogni - la cultura parla il linguaggio della donazione. Finalmente un «fatto sociale totale», come intendeva il dono Marcel Mauss: un innesco di diritti e doveri civili. A furia di clientelismi e ruberie, non sappiamo più come si pratica. Lo scorso 12 ottobre a Venezia, con apertura gratuita al pubblico, la Peggy Guggenheim ha presentato un lascito di 83 opere d'arte - italiane, europee e americane - che vanno dal secondo dopoguerra agli anni Novanta. È l'arco di tempo in cui Hannelore Buck e il marito Rudolph Schulhof nutrono la passione del collezionare. Oggi chi riceve questa eredità di pitture e sculture, l'arguto Philip Rylands, ricambia il «carisma» della coppia, intercedendo per loro, traducendo per noi. Dei 400 pezzi della collezione, sceglie personalmente gli 83 per la Guggenheim, intuendo il senso di un discorso coerente. Il bene ha un valore assicurativo stimato in 160 milioni di dollari. All'opposto del Met di New York, competitor nell'acquisizione, Rylands garantisce di non scorporare la raccolta e di esibirla in modo permanente. Non sono soltanto oggetti a circolare, ma lo spirito del donatore viaggia insieme al dono; dà vita a un legame fra gli individui che va al di là del puro scambio economico.
Alcuni particolari caratterizzano la prassi degli Schulhof. Tedesca di origini ebree lei, ceco lui, arrivano a New York dall'Europa nel 1940 e ingrandiscono la casa editrice della famiglia Buck, specializzata in cartoline di auguri. Fanno fortuna tanto da aprire un ufficio a Milano, nel 1952, per acquistare arte da riprodurre su biglietti e buste. Così la raccolta Schulhof possiede all'origine un «indirizzo» pubblico.
Ma per questo corpus unitario, sistematico, l'ora della consegna scocca, però, al completamento del processo, con la morte di Rudolf nel 1999, che chiude una attività sempre vissuta in coppia, e poi con la recente dipartita di Hannelore e con il tener fede a un desiderio preciso: esporre le opere a Palazzo Venier dei Leoni, sede della Peggy Guggenheim, perché siano riconosciute come «Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof».
Gli Schulhof non hanno mai venduto neanche uno dei loro pezzi. Dagli inizi, si occupano della ricerca in autonomia, «comprando con gli occhi, non con le orecchie» (Hannelore Schulhof). Incontrano Peggy proprio a Palazzo Venier dei Leoni, nel 1954 durante la Biennale. Si tende allora quel filo che oggi, in concreto, salda la continuità fra le due collezioni.
A colmarsi non è soltanto un vuoto storico, l'arte che da metà del Novecento in poi mancava alla Fondazione. Guggenheim e gli Schulhof, negli anni della querelle iconico/astratto, sostengono il non iconico, da molti considerato un insulto. Vedono le ragioni dell'astrazione: la libertà dall'obbligo di mimesi del mondo. A lungo la salvaguardia della rappresentazione ha coperto l'esperienza del fare arte, pittura e scultura come ritmica di energie del corpo e resistenze delle materie. Una vitalità cancellata. Per restituire all'opera il «suo» tempo, Peggy colleziona arte che raggiunge un alto livello di astrazione - El Lissitzky, Pollock, Vasarely - o è un figurativo che la alleva e partorisce - Klee, Brancusi, Braque. Sulla sua scia, le opere degli Schulhof, tutte al presente, esemplificano l'interazione con le materie, sintomatica dei gradienti passionali dell'uomo, dalla veemenza alla compostezza. Rylands li recupera, precisandone le declinazioni - informale, dove il conflitto cresce (Burri, Capogrossi, Mitchell, Twombly...), geometrico, dove si attenua (Judd, Stella, LeWitt, Martin), cinetico, dove è in delega allo spettatore (Riley, Stella, Kelly). L'allestimento a sua firma non ricalca casa Guggenheim e non ha più la relazionalità degli appartamenti Schulhof a Manhattan e Long Island, esibita in catalogo dalle foto di David Heald. È una scrittura nuova, né propria né altrui, una scrittura creola che marca le affinità elettive con Peggy - un Dubuffet trova il suo doppio speculare - e accosta per rime - tra Kelly e Calder; tra Tàpies e Chillida. Si dispiega nello spazio che ospitava il prestito Mattioli, ma con utili incursioni nelle sale di Peggy - Calder, Rothko.
Il Gray Scramble (1968-69) di Frank Stella, in fondo al percorso, riassume il lascito. Sarebbe piaciuto a Louis Marin, che ha dedicato un saggio a questa serie dell'artista italo-americano. Qui la rappresentazione è opacizzata dalla trasparenza del suo segno rappresentativo, il quadrato-cornice. Strumento di chiusura per eccellenza, il margine diviene figura ritmica di una forza in espansione: il punto di fuga, il quadrato giallo, l'unico inquadrato da undici cornici colorate, coincide, per la legge del contrasto cromatico, con il punto di vista, entra cioè nello spazio di presentazione dell'opera, il nostro. Significativamente, la variante degli Schulhof non è un precipizio, come le altre descritte da Marin, ma una piramide, sconcertante da scalare, passione dell'eccesso che guarda in faccia lo spettatore.
Alla Guggenheim, con i nuovi capolavori, l'arte astratta è dominio pubblico, con qualche rischio.

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