LAVORO

Lombardia, produzione industriale in caduta «come in una guerra»

Unioncamere/ I DATI DEL TERZO TRIMESTRE DICONO: -5,5%
PICCIONI FRANCESCO,

I primi a dare i numeri della produzione nel terzo trimestre di quest'anno sono stati lombardi. L'Unioncamere regionale ha convocato una conferenza stampa per dire che la situazione è tragica, ma cercando parole meno allarmistiche, com'è obbligo di un'istituzione che rappresenta interessi imprenditoriali nel territorio più industrializzato d'Italia.
Il numero che fa più impressione è quel -5,5% della produzione industriale rispetto all'anno precedente. Da inizio anno a oggi è «solo» un -4,5. La tecnica comunicativa prescrive però di dire che nel trimestre indicato il calo registrato è dell'1%, mentre nel secondo era stato dell'1,8. Quindi si può tecnicamente parlare - come hanno fatto tutti i relatori - di «rallentamento del calo» produttivo. Basta ricordare, però, che sempre di calo si tratta, anche se meno precipitoso di prima. Il presidente dell'associazione, Francesco Bettoni, lo ha definito addirittura «un calo di produzione da tempo di guerra».
E in effetti, cumulando un calo dopo l'altro, a partire dalla fine del 2010, la produzione industriale lombarda ha raggiunto il -15% rispetto ai livelli pre-crisi 2008. Nel 2009 si era toccato il punto più basso, per poi risalire lentamente. Ma il finale di partita berlusconiano e ancor più la «terapia Monti» hanno riprecipitato il paese in recessione, grazie anche al contributo della crisi globale.
Dalla disaggregazione dei dati il quadro esce fuori con molta nettezza. Nonostante la frenata generalizzata a livello globale, la domanda estera in qualche misura «tiene», con livelli sostanzialmente stabili rispetto al trimestre precedente. La contrazione è stata in questo campo appena dello 0,3% rispetto ai massimi di fine 2010. Nulla di cui entusiasmarsi, ma nemmeno un dato troppo preoccupante.
Tutto l'opposto invece per la componente «domanda interna». L'Italia non è più in condizione di sviluppare i consumi e questo, come da manuale, frena drasticamente anche la propensione delle imprese ad investire. Ne consegue una «spirale deflattiva», per cui la produzione cala, la gente perde il lavoro, i consumi diminuiscono ancora, le industrie riducono l'output e via così. Nella depressione.
La verifica è immediata: le imprese produttrici di «beni di investimento» (tipicamente macchinari) registra una forte caduta dei livelli produttivi (-7,4% nell'industria e -9,6 nell'artigianato).
Chi produce soprattutto per il mercato interno registra autentici tracolli: -6,8% degli ordinativi. Per quanto riguarda invece i settori merceologici, pagano pesantemente dazio l'abbigliamento (-13,4%), i minerali non metalliferi (-12,8) e naturalmente i mezzi di trasporto (-10,6). La «tenuta» qui - con perdite contenute - riguarda soprattutto meccanica, calzature, pellame e tessile. Basta comunque ricordare che nessun settore fa registrare il segno «più».
A livello provinciale la crisi sta torturando in primo luogo Lodi (-8,3%), dove si è fermata l'edilizia. Mentre Varese, grazie all'aeronautica e ai beni strumentali, si consolo con un -2,2. Come dimensione delle imprese, naturalmente, reggono un po' meglio quelle grandi, maggiormente beneficiarie della domanda estera. brutte batoste, comunque: -4% nell'industria e -5,7 nell'artigianato). Per le piccole imprese va decisamente peggio (-7,1 e -10,4, rispettivamente), come anche per le medie (-4.9 e -5,7).
La conseguenza è il calo generalizzato anche nel tasso di utilizzo degli impianti, che si assesta al 71,2% nell'industria, mentre per l'artigianato è ancora più basso: 66,8. In queste condizioni, senza nemmeno essere dei grandi esperti di organizzazione del lavoro, gli unici «investimenti» possono riguardare la manutenzione o la sostituzione dei macchinari che si rompono.
Uno scenario che non depone affatto a favore del «tavolo sulla produttività». Non perché sia impossibile che le parti sociali trovino un accordo (ci riusciranno di sicuro, e non sarà affatto un bel vedere), quanto per l'efficacia economica delle decisioni che saranno prese. Pensare di «aumentare la produttività», con modesti aumenti salariali nelle sole aziende in cui ci si riesce, peggiorerà le condizioni del «mercato interno». Ci saranno infatti meno occupati, quindi meno consumi e così via.

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