LA PAGINA 3

Questa è la vera emergenza

SULL'ORLO DEL BARATRO - Tutti i siti dalla siderugia all'Alcoa, dalla Fiat a Finmeccanica
PATERNO FRANCESCO, PICCIONI FRANCESCO,

La manifestazione del 20 ottobre mira al corpo grande. Quella che segue è una mappa di aziende in crisi dal nord al sud, grandi e piccole, che insieme fanno una emergenza nazionale. Un'emergenza che nasce da scelte imprenditoriali sbagliate, da sprechi, da politiche e sovvenzioni pubbliche finite male o altrove. E che si vorrebbe far pagare soltanto a chi ancora ci lavora.

Lo spezzatino Finmeccanica
Il gigante di stato è finito in grossi guai finanziari. E giudiziari, per quanto riguarda l'attuale amministratore delegato Giuseppe Orsi e il precedente presidente Pierfrancesco Guarguaglini oltre a manager minori. Per uscirne, Orsi spinge per lo spezzatino, la vendita di asset. La protesta operaia del 20 ottobre esce dalla Liguria per opporsi alla cessione di Ansaldo Energia, per la quale è in corsa la tedesca Siemens. Perché vendere significa quasi sempre ristrutturazione, cioè licenziamenti. E vendere all'estero significa anche perdere know how in un settore strategico, e per di più nei confronti di una concorrente diretto. Nei giorni scorsi, il ministro per lo Sviluppo Corrado Passera ha fatto sapere che il governo preferirebbe una cordata italiana per Ansaldo Energia, anzi «l'azionista migliore che faccia crescere l'occupazione e gli investimenti in Italia». Soprattutto per uno dei pochi settori sani di Finmeccanica.

La Fiat si è fermata
La crisi dell'auto è la crisi della Fiat, nel paese - unico in Europa tra i grandi produttori di quattro ruote - in cui non c'è concorrenza straniera. L'amministratore delegato di Fiat-Chrysler ha cancellato formalmente i 20 miliardi di investimenti promessi in Italia nel'aprile del 2010 e già rimangiati a mezza bocca nell'ottobre del 2011. Dei cinque stabilimenti del gruppo, solo quello di Grugliasco rilevato dalla Bertone ha futuro certo. A Pomigliano, la Fiat ha investito 800 milioni di euro facendone il suo sito migliore d'Europa, ma la linea di montaggio della nuova Panda è smontabile in pochi giorni. A Mirafiori è stata prima promessa la produzione della Fiat 500L e poi le è stata tolta, a favore del sito serbo di Kragujevac. Poi è stato promesso un miliardo di investimento per la produzione di due Suv, ora sospeso sine die. A Melfi e a Cassino non è stato promesso nulla né di buono, né di nuovo; l'unica certezza è la cassa integrazione. Il governo tratta con la Fiat soltanto sulla proposta Fiat di avere incentivi all'esportazione. Che però dovrebbero valere per tutta l'industria italiana. Il non detto è che il gruppo vorrebbe anche la cassa in deroga, se il mercato dell'auto continuasse ad andar giù come è previsto. Ma dove il governo possa trovare i soldi, con addosso gli occhi di un paese allo stremo, è un mistero. Per cui la parola d'ordine del governo e della Fiat è: nessuno ha chiesto niente. Fino a quando?

La notte delle acciaierie
Il boom italiano del dopoguerra ha un nocciolo industriale dimenticato - la siderurgia - e un nucleo economico ormai esecrato: la proprietà pubblica. Poi sono arrivati gli anni del «bisogna privatizzare», segnati dalla (s)vendita a gruppi più o meno noti alle cronache: Riva, Lucchini, Marcegaglia, Arvedi, Alcoa, ecc. Innovazione poca, cautele ambientali (come prima) zero, e infine la Grande Crisi del 2008-09, che ha ridotto del 30% la produzione. Due anni di buon recupero e ora l'esplosione di focolai tutti apparentemente senza soluzione. Parliamo di un settore che fattura 40 miliardi, occupa 36.000 persone che diventano 60.000 con l'indotto; in cui l'Italia è il secondo produttore europeo e il 12° al mondo. Per quasi tutte le aziende in situazione critica il governo mette in campo, al massimo, un po' di ammortizzatori sociali (che ha comunque ridotto per forme, dimensioni e durata con la recente «riforma del mercato del lavoro) e la «ricerca di compratori stranieri». La domanda semplice è: se non si trovano cosa si fa? Si chiede alla popolazione di emigrare?

Alcoa, sussurri e grida
Fantasmi si aggirano per l'azienda sarda dell'alluminio. Oggi ci sarebbero tre manifestazioni di interesse per il sito di Portovesme: quella di Klesch, con cui è stata già aperta una negoziazione, di Kitegen e quella di un'altra «importante società australiana». Ma l'unica notizia certa per ora è il rinnovo per tre anni da parte della Ue delle agevolazioni sulle tariffe energetiche. Ieri mattina c'è stata una nuova assemblea dei lavoratori a Portovesme. La proroga della Ue ha riacceso le speranze che si possa evitare la chiusura della fabbrica. La multinazionale americana, che la pensa diversamente, ha scritto loro una lettera: auspica «che siano al più presto sottoscritti accordi finali con i sindacati e le imprese, affinché il sostegno (integrazione del reddito, ndr) possa essere operativo». Per il resto, troppi fantasmi.

I finlandesi di Terni
Alla Thyssen umbra è difficile parlare di crisi. Qui la multinazionale finlandese Outokumpu, ormai prossima all'acquisizione di Inoxum dalla tedesca Thyssenkrupp, ha deciso di vendere dopo che l'antitrust europeo ha minacciato di bloccare l'operazione, che le garantirebbe una posizione «dominante». I 2.000 dipendenti sono ovviamente in fibrillazione. Si sentivano tranquilli, visto che qui si producono acciai speciali, la domanda è rimasta alta nonostante la crisi globale, l'inquinamento è ridotto al minimo (si lavora soprattutto «a freddo»). In un primo momento sembrava che sarebbe bastata la cessione degli impianti svedesi (sia a caldo che a freddo), poi qualcosa è andato storto. Dopo l'incontro di ieri al ministero, il governo ha deciso di convocare i board Outokumpu e Inoxum e non esclude un intervento a livello comunitario.

Piombino no va in porto
Qui le acciaierie sono due: Lucchini (la più grande) e Magona (dell'indiana Arcelor Mittal). Per entrambe sembra ormai indispensabile «trovare un acquirente», ovviamente straniero visto che non ci sono industriali nazionali del settore che abbiano risorse proprie. E non è affatto facile. Qui, oltre al costo dell'energia, c'è il problema di implementare le infrastrutture di collegamento con il porto, le bonifiche ambientali.

Ferriera di Servola, for sale
Lo storico impianto triestino appartiene anch'esso a Lucchini. Gli enti locali (Regione in testa) stanno chiedendo al governo di inserire l'azienda tra i casi di «crisi industriale complessa» per ottenere l'intervento degli strumenti previsti dal «decreto sviluppo». La filiera interessata comprende anche Sertubi, Eletta e Linde. Lo stabilimento è in vendita, ma l'advisor Rotschild - cui è stata affidata l'operazione - non è fin qui riuscito a trovare un solo interlocutore.

Agile, ex Eutelia
Non solo l'«antica» siderurgia. Anche la modernissima informatica soffre terribilmente. Grazie soprattutto a privatizzazioni fatte senza guardare troppo per il sottile, che hanno portato azienda all'avanguardia come questa nelle mani di gente che, prima di finire in galera, si autofotografava col coltello tra i denti o inviava una squadra di picchiatori travestiti da poliziotti a sgomberare un'occupazione da parte dei lavoratori.

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