CULTURA

Quando il «corpo» del reato è un'opera

MOSTRE
AMBROGI SABINA,

«Piena solidarietà agli artisti Nadia Jelassi e Mohamed Ben Slama, accusati di aver turbato l'ordine pubblico in seguito ai fatti di El Ebedelleya, a Tunisi, mentre i veri colpevoli dei disordini non sono stati perseguiti». Questo è il testo in francese e in arabo che accompagna, nei social network tunisini, migliaia di fotografie di volti con un metro da sarta, un righello o una squadra. Si afferma così il concetto che la «misura» dell'arte è solo l'arte, e si denuncia l'ingiustizia secondo cui responsabili degli scontri (un morto e diversi feriti) dell'11 giugno scorso durante l'esposizione Printemps des arts, curata dall'italiano Paolo Perrelli, sarebbero gli artisti e non i salafiti che hanno distrutto, saccheggiato molte opere d'arte, dicendosi offesi nel loro sentimento religioso.
Le foto, spesso montate in sovrapposizione, formano una stringa unica, e giocano anche sul doppio significato di «règle», righello per misurare, ma anche reglement (regolamento, insieme di leggi), règle (norma). All'origine di questa potente campagna di solidarietà c'è un gesto di protesta di Nadia Jelassi contro l'ingiustizia subita. Mentre il suo collega Mohammed Ben Sal è riuscito a allontanarsi dal paese, l'artista, professoressa all'Institut Supérieur des Beaux Arts, è stata convocata alcuni giorni fa dal giudice istruttore di Tunisi. Le è stato chiesto di giustificare le intenzioni della sua creazione esposta in Printemps des arts che, offendendo il sentimento religioso di molti, avrebbe causato disordini. Se l'arte spesso parla di ciò che opprime e nel caso quindi, denuncia la «religione» come strumento di manipolazione e frutto di ignoranza, con tutto lo scontro ideologico che ne è conseguito si è ancora una volta giocato sul terreno della rappresentazione e dei simboli, come fu per il film d'animazione iraniano Persepolis che causò scontri nelle strade di Tunisi, qualche giorno prima delle elezioni di ottobre 2011.
«La mia intenzione andava nel senso di colmare i vuoti - spiega il curatore della mostra Paolo Perrelli - trasferire le opere di questi artisti dalle gallerie private alla visione di un pubblico più vasto possibile». Ne è scaturito un disastro nazionale e un pericoloso precedente, ma soprattutto un clima di terrore: l'imam della Zitouna per tre volte durante la stessa preghiera del venerdì ha incitato a far scorrere il sangue degli artisti dell'esposizione, le cui liste con foto erano appese fuori alle moschee.
Convocata in tribunale, Nadia è stata accompagnata da un poliziotto a posare per una foto e invitata a fornire, assieme a criminali comuni, le prove antropometriche, cioè le misure del corpo del reo, anche se il reato, nel caso, sarebbe la propria espressione artistica. Una volta rientrata a casa, ha postato su Facebook la foto del suo volto attraversato da un righello. In questo modo Nadia Jelassi si è ripresa l' identità e la libera misura della sua arte appena cancellata dal tribunale. I due artisti rischiano ora fino a cinque anni di prigione, secondo l'articolo 121.3 del codice penale. L'opera incriminata Celui qui n'a pas...., sta facendo il giro del mondo. Si tratta di un'installazione di busti di donne in nero con i volti anonimi avvolti da carta di giornale, posti su un tappeto di pietre. L'insieme include evidentemente tanti significati, compreso quello giudicato blasfemo: la lapidazione come deriva della cultura islamica. Suggerire questa opzione di significato alla coscienza del fruitore, assieme al poco «rispetto per le donne» offenderebbe il sentimento religioso. Le altre due opere sono di Mohamed Ben Slama: una raffigurante il corpo di una donna con un piatto di cous cous al posto del sesso, circondata da uomini con delle barbe senza fine, Cous cous à l'agneau, l'altra un bambino dalla cui cartella esce una scia di formiche (sembrano anche le punte dei fili spinati) che forma la scritta Sobhanahallah («gloria a Dio»). Queste opere sono ora sotto sequestro.
Così tutti i processi di risignificazione e risimbolizzazione della traballante nuova Tunisia sembrerebbero avvenire attraverso il corpo come ultimo baluardo da opporre a un'oppressione subita, o ancora in corso, o paventata: il corpo in fiamme di Bouazizi che accende la rivoluzione; i corpi in movimento dei migranti che si fanno poi harraga bruciando le loro identità di carta per riprendersi il proprio stato di essere umano a prescindere dalla provenienza; i corpi in cerca di nuova identità inghiottiti dal mare; i corpi delle madri che si bruciano per riavere i figli dispersi; e ancora, il velo che copre il capo delle donne simbolo di una ambigua libertà negata dal dittatore amico dell'occidente, Ben Ali.

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