CULTURA

Il rischio che si corre in Laguna è l'impermeabilità al futuro

BIENNALE ARCHITETTURA
CIORRA PIPPO,

Riguardo alla Biennale architettura appena inaugurata, vale la pena fare alcune considerazioni, soprattutto in relazione all'impatto che la mostra può avere sul mondo professionale e culturale dell'architettura internazionale, in una fase in cui alle crisi intrinseche al mondo del progetto si sovrappone uno stato di perenne emergenza universale che investe campi molto vicini a quelli nei quali operano gli architetti.
Il curatore. Si tratta di un architetto a tutto tondo, membro riconosciuto dell'élite professionale internazionale, autore recente di un importante progetto di restauro del Neues Museum a Berlino e di diversi edifici in Italia. Chipperfield non ha particolari interessi critici né esperienza di mostre. Come nel caso di Kazuyo Sejima (2010) viene nominato per il suo appeal verso il pubblico, che la Biennale considera superiore a quello di un critico o di un curatore. Non tutti saranno d'accordo (io nella vita faccio il curatore), ma la linea di Baratta è chiara: la Biennale ha bisogno di molta risonanza e messaggi chiari, e gli architetti sono più famosi e più pragmatici.
Il tema. Il curatore di una Biennale architettura (ancor più che per l'arte) ha un primo compito difficile: definire un tema (e un titolo) che raccolga sotto il suo ombrello decine di approcci geopolitici diversi, centinaia di modi di lavorare, ambizioni e tattiche espositive le più diverse. Quando il curatore è un critico o uno storico, il tema tende a restringersi verso una questione di attualità (per esempio), col risultato di avere un criterio chiaro e un campo di selezione potenzialmente più ristretto. Con gli architetti progettisti si va in genere verso temi più vaghi, che consentono al responsabile di invitare più o meno chi gli pare.
Chipperfield, con un approccio molto diverso dall'«autoritratto» di Sejima, ha scelto un tema - Common Ground - che potesse essere in qualche modo preso sul serio ed entrasse obliquamente in risonanza con la condizione di crisi dell'architettura e della società. Common Ground può però avere molte interpretazioni, da quella più osservante e disciplinare, centrata sulla cultura specifica degli architetti, a quella più sociale e «movimentista» che identifica il terreno comune con quello in cui gli architetti cercano il dialogo con la società e con le comunità. L'impressione è che nell'approccio del curatore alla mostra questo campo sia andato progressivamente restringendosi: nelle prime conferenze stampa andava più o meno bene tutto, poi è diventato chiaro che Chipperfield era più interessato al dialogo interno degli architetti, infine che tra gli architetti intendeva mettere al centro quelli che si battono per il consolidamento dello zoccolo più duro e immutabile («i fondamenti») della disciplina.
La selezione. Per quanto riguarda gli invitati, si è in sostanza delineato un centro e una periferia della mostra. Al centro gli architetti più vicini all'impostazione chipperfieldiana, moltissimi (troppi) londinesi, molti svizzeri, qualche tedesco, autori di piccole «mostre nella mostra» nelle quali esplicitano i loro debiti culturali con i maestri, le affinità con i colleghi, i dialoghi (limitati) con gli artisti. In una posizione più centrifuga, tutti gli altri, più interessati a ciò che succede intorno piuttosto che dentro al recinto disciplinare, più votati a considerare l'interscambio con la società, l'arte, la tecnica come strumenti essenziali per generare innovazione.
Tra i più ortodossi rispetto al mandato di Chipperfield, tanto per fare qualche nome, Kolhoff, Caruso e St. John, Olgiati, i giovani italiani di San Rocco, Toshiko Mori, Moneo e molti altri. All'altro estremo, platealmente, Urban Think-Tank (inaspettatamente premiati con il Leone d'oro), Noero & Wolff, il Padiglione Usa (che naturalmente ha un curatore diverso, Cathy Lang Ho). Con in più una «piccola» rappresentanza di archistar, vagamente fuori posto. La presenza più inquietante, certamente quella di Eisenman che chiama studenti e amici a elaborare esercizi di perversione architettonica (ma poco inclini al piacere) intorno al Campo Marzio di Piranesi. La lista di Chipperfield alla fine è piuttosto inclusiva, col risultato di annacquare troppo il suo messaggio. Per reazionaria (o almeno impermeabile al futuro) che fosse, sarebbe stato più interessante e provocatorio riconoscere più chiaramente la proposta dell'architetto inglese, le sue coordinate culturali, il team di alleati con i quali intende occupare il centro per ora abbastanza vacante del potere architettonico globale.
L'allestimento. È interessante vedere come tutto questo si rifletta sull'allestimento. La parte più riuscita è Padiglione Centrale. La peggiore, il gioco un po' irritante dei sottoinviti reciproci nei vari spazi, per cui troviamo più volte gli stessi architetti, a volte cortesi «padroni di casa», altre «graditi ospiti» pronti a ricambiare l'invito. Pochi i sussulti: un'intera (ed esoticissima) casa indiana in mattoni di Anupamaa Kundo, l'allegrissimo bar venezuelano (attivo) installato dagli Urban-Think Tank alla fine delle Corderie, lo spazio dei Crimson Architectural Historians, una bellissima stanza «fuori luogo» dedicata da OMA a dieci architetti operanti nelle istituzioni pubbliche nella seconda metà del Novecento, un esperimento di Alison Crawshaw sull'abusivismo romano davanti alla facciata del Padiglione Centrale.
La sequenza espositiva rende evidente uno degli aspetti più radicali (e discutibili) della mostra: la presenza scarsissima, con le inevitabili eccezioni, dell'architettura non inglese e svizzero/centroeuropea. Stati Uniti, poca Olanda, Spagna e Portogallo, niente Europa dell'Est, niente (o quasi) Asia, Australia, Middle East, Africa, paesi emergenti in genere. Un po' la «velocità» che il ritardo nella nomina impone al curatore di architettura, un po' (forse di più) l'idea che quanto accade nei «nuovi mercati» e nelle terre di margine sia più un pericolo (culturale) che un'opportunità (professionale) per l'architettura. Comprensibile, ma comunque molto one-sided, contrariamente, per esempio, a quanto accade nelle Biennali di arte.
I Padiglioni. Alla Biennale il padiglione giapponese funziona come il pistacchio in gelateria: se è buono vuol dire che è un buon gelataio. In questa mostra, il padiglione giapponese è curato da Toyo Ito ed è dedicato a raccontare l'impegno degli architetti nipponici nella fase post-tsunami: gioiamo per il premio, ma allo stesso tempo silenziosamente rimpiangiamo la perfezione formale (un po' più cinica) delle ultime edizioni. L'indicatore Giappone funziona: non sono molti i padiglioni che ricordiamo. Quasi tutti prendono alla larga, o ignorano, l'input di Chipperfield. Per vari motivi rimangono in mente la splendida installazione textile di Petra Blaisse nel padiglione olandese, i Russi per aver costruito un incongruo e fascinoso (e molto costoso) «spazio per una visita digitale», gli americani per le 125 Azioni Urbane registrate, gli Israeliani per la riflessione ironica sull'influenza americana.
Italia. Ce n'è come sempre poca, pochissima. C'è ovviamente la ragione endemica del persistente stato di crisi e marginalizzazione dell'architettura nel nostro paese, dove si costruiscono davvero pochi edifici «presentabili» in una rassegna internazionale. Ma c'è anche una ricognizione di Chippefield ancora più striminzita e cervellotica del solito. C'è, come detto, Cino Zucchi, meritatamente. Ci sono poi due storici, Fulvio Irace e Vittorio Magnago Lampugnani, per ragioni che nessuno ha ben capito. C'è infine il gruppo della rivista San Rocco, che riunisce tre giovani studi, con una «collezione» che sta lì a dire che se c'è da mettersi in trincea per la «buona vecchia Architettura (maiuscola)» c'è qualcuno pronto anche da noi.
Insomma, ci sono luci ed ombre e ci sono forse i lavori di cinque o seicento architetti. È quindi inevitabile che ci siano molte cose che vale comunque la pena di vedere e aspetti che proprio non convincono. C'è un tema interessante, che i curatori non esplicitano, ma che potrebbe essere un buon punto di partenza. Considerare cioè il common ground come una possibile alternativa ai percorsi strettamente individuali che gli architetti contemporanei amano tracciare. Senza gruppi, senza condivisioni, senza battaglie comuni e tendenze. Non so se può funzionare ma è stimolante. All'opposto c'è lo stupore, per chi scrive, di dover constatare come un gruppo di architetti (Chipperfield, Kollhoff, Diener & Diener ecc.) che alla fine degli anni '80 rappresentavano forme possibili (minimaliste, tardo moderniste, razionaliste) del progresso architettonico siano diventati oggi difensori accaniti e nostalgici di un supposto «ordine» architettonico che guarda con terrore all'innovazione, agli scenari non euroccidentali, al confronto con l'arte e con le istanze sociali economiche e ambientali.

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