CULTURA

Alfredo Jaar, l'esperienza dell'impegno

ARTE - Un volume a cura di Lorenzo Fusi
MIGLIORE TIZIANA,

Fino al XIX secolo il quadro di storia era il più acclamato: commemorava fatti di cronaca, coevi e non, e sussumeva altri generi che poi si sarebbero autonomizzati: il ritratto, il paesaggio, la natura morta. Questa stabile categoria artistica si è evoluta. «Quadro di visibilità» (Foucault), che anziché registrare il già riportato, fa storia esso stesso, competitor della disciplina ufficiale e dei media nel decidere cosa e come notiziare. Al bando la tesi che l'opera esprima lo «spirito del tempo». Dedurre dall'arte la trascendenza della filosofia di un'epoca è servirsi di una comoda tautologia, con cui si pretende di spiegare i fenomeni senza osservarli.
Oggi non pochi artisti narrano avvenimenti specifici, colmando mancanze e denunciando storture. Pure, in un clima di oscurantismo politico, indotto dall'accentramento dei poteri nel capitale, è prezioso chi, nell'esporre, torna a interrogare il senso della cultura.
Alfredo Jaar interviene così. Restio alle performance e a ogni sorta di autoreferenzialità, teme l'arte come evasione, che incrementa l'individualismo, un male peggiore del conflitto, quando sono in causa diritti sociali. E da architetto, esercita la professione di artista per offrire modelli di pensiero del mondo. Progetta il passato strappandolo al conformismo che rischia di soggiogarlo: l'utopia naturalista, l'ottimismo della ragione, il mito del progresso. E degli eventi dona sfaccettature critiche, che significa far conoscere, ma anche far comprendere. Il compito dell'intellettuale, di intercedere per lo sviluppo di una società civile. La cultura non è infotainment.
A rendere eloquenti le opere di Jaar stenta una monografia, figuriamoci un coffee-table book. Vi si presta la formula della conversazione a due voci, che la collana «Tomografie d'Arte Contemporanea», diretta da Michela Becchis per Exòrma, sposa nell'ambito del fare storia, scandagliando le carriere di artisti attenti alle dinamiche del potere. Questo quarto volume, Alfredo Jaar di Lorenzo Fusi, conferma l'efficacia di una «esplosione» del senso ottenuta attraverso il meccanismo dialogico e asimmetrico (Jurij Lotman). Un artista, Jaar, e un curatore, Lorenzo Fusi, indagano insieme il produrre e l'interpretare l'opera, evitando, da un lato, dichiarazioni di poetica, dall'altro letture idiosincratiche. Condividono l'esperienza di un'arte responsabile, prescrittiva nella sensibilizzazione ai problemi.
La prima metà del libro, che ha un agile formato, da diario di bordo, presenta un'analisi approfondita dell'attività di Jaar. Fusi mostra il contributo al cambiamento perseguito dall'artista. Le sue installazioni destano dall'assuefazione al baccano mediatico. E impegnano a creare varchi per condizioni di libertà o equità che sono state o sono tuttora impossibili. Belle illustrazioni corredano il testo. Jaar dà la parola ai connazionali cileni, piegati dalla dittatura di Pinochet (Estudios sobre la felicidad, 1979-1981); fa luce sui compromessi del fotogiornalismo nel genocidio dei Tutsi (Rwanda Project, 1994-2000); installa a New York, lungo la linea della metro che va verso Wall Street, immagini dei minatori d'oro in Amazzonia, immersi nel fango (Rushes, 1986); accatasta un milione di passaporti per migranti e rifugiati, respinti dalla Finlandia (One Million Finnish Passports, 1995); alla frontiera tra Tijuana e San Diego, solleva una nube di 3000 palloncini bianchi, a ricordo dei latino-americani morti per aver voluto entrare illegalmente negli Stati Uniti (The Cloud, 2000).
Il dialogo che segue diverge dal botta e risposta tipico dell'intervista. Fusi non ha in mente un interlocutore «sfinge», da cui carpire segreti sugli enigmi dell'opera, sostituendo l'interrogazione alla descrizione. Né vede in Jaar un guru, alle cui posizioni allinearsi; anzi, lo incalza sui paradossi della sua azione, destinata a circoli di collezionisti, spesso coincidenti con gli investitori finanziari che speculano sul Sud del mondo. Un punto cruciale è l'incapacità, da parte di artisti e intellettuali, di raggiungere collettivi ampi e comunicare con diversi strati sociali. Per Jaar si tratta di un'esigenza, ottemperata realizzando progetti pubblici e rinnovando la memoria di due figure cardine, Gramsci e Pasolini, rispetto alle quali l'artista evidenzia una filiazione epistemica. Occorre considerare la cultura non uno status quo, ma un processo tensivo, l'atto faticoso e reversibile del mettere in forma per gli altri. Jaar investe sia nei percorsi di apprendimento del «noi» destinatario - Questions Questions (2008) ha invaso muri, fiancate d'autobus e stazioni del metrò di Milano con quindici domande sul ruolo della cultura - sia nei percorsi di istruzione del «noi» destinante - Searching for Gramsci (2004). Si menziona in proposito Le ceneri di Pasolini (2009), crossover sulle orme dei due maestri, tra poesia, inchiesta politica e cinema, proiettato da Jaar al Pavéllon de la Urgencia della Regione Autonoma della Murcia, durante la Biennale Arte di Venezia del 2009. La pregnanza è un aspetto prioritario anche per Fusi, che dal 2010 coordina «The International», sezione principale della Liverpool Biennial. Prossima all'apertura, l'edizione 2012 della rassegna periodica di arte pubblica più importante al mondo esplorerà il tema dell'ospitalità, il fronteggiare l'inatteso, come competenza da potenziare (The Unexpected Guest). Una smentita alle inutili provocazioni che atterrano le Biennali e consolano le mostre tipo Documenta, le quali, per inciso, ripropongono gli stessi circuiti. I discorsi sulle grandi esposizioni restano privi di consistenza, finché gravitano attorno al caos, invece di tagliarne e articolarne la massa. Lasciano gli eventi illeggibili.
La battaglia per la diffusione capillare dell'arte ha un fulcro nel concetto di frontiera, riferito nuovamente al ductus dell'intellettuale. Fusi e Jaar, citando le teorie di Étienne Balibar, si addentrano in un dibattito meritevole di risonanza. Le recenti politiche di immigrazione hanno chiarito che il razzismo è un problema non di eredità biologica né di contesto geografico, ma di insuperabilità delle differenze di classe. Come attecchisce? Il singolo, in una società a forte impronta individualista, idealizza una «sua» comunità, le cui frontiere sono dettate da un sistema deviato di identificazione/esclusione. Consente permeabilità di saperi solo al simile. Una di queste comunità transnazionali è l'odierna classe intellettuale, invisibile e di minoranza. Spende il tempo a «postare» autoritratti e dall'agire è passata allo status, per titolo acquisito. L'élite: il contrario dell'accezione di intellettuale per Gramsci e Pasolini.
La cultura si riscopre - ed è un onere oggi - se si rompe il fronte dei personalismi e si mette il pensiero al servizio di tutti. Un bene che insegni a capire e guidare, in ciò che accade, comportamenti propri e altrui.

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