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Arriva l'era del petrolio italiano

CACCIARI PAOLO,

Scusate, ci siamo sbagliati. Il collasso del sistema non è per quest'anno. L'era del petrolio non è finita. Anzi, non ce n'è mai stato così tanto. Non c'è alcun bisogno di allarmarsi per il riscaldamento globale. Anzi, l'ambiente è un driver di crescita, un'opportunità di business. La crisi finanziaria non è una catastrofe, ma una buona strategia di pressione per rimettere in moto l'economia. Queste le notizie che circolano negli ambienti che contano. Ma andiamo con ordine.
Immensi giacimenti di idrocarburi unconventional (chiamati shale o tight, olio e gas di scisto) imprigionati nelle rocce calcaree, arenarie, quarzo e argilla sono diventati disponibili grazie al processo di estrazione detto fracking (con tecnologie introdotte dalla Halliburton): perforazione orizzontale del sottosuolo e frantumazione idraulica. Sabbia e additivi chimici sparati nei pozzi consentono alle molecole di petrolio di fluire in superficie. Negli Stati Uniti si scava ad un ritmo impressionate: più di cento pozzi al giorno. Un solo giacimento, chiamato Dakken nel North Dakota, produce già 700.000 barili al giorno. L'Eagle Ford, in Texas ne produce 300mila. Il prezzo del greggio Brent attestatosi sui 95 dollari al barile consente di realizzare enormi guadagni alle compagnie e al mercato finanziario delle commodities e dei futures petroliferi che reinvestono sui nuovi giacimenti cifre da capogiro: mille miliardi spesi solo negli ultimi due anni. Così lo sfruttamento delle riserve più nascoste e impervie è diventato conveniente.
«L'America è a un passo dall'indipendenza energetica», scrive Leoanardo Maugeri in un rapporto per la università di Harvard, pubblicato in parte con il titolo «La rivoluzione sotterranea» sul mensile di agosto del Sole 24 ore. Ma non è solo Obama a rallegrarsi. La Russia, la Cina, l'Australia, l'Argentina, il Canada, il Venezuela, l'Algeria, la Nigeria e qualche paese europeo dell'est (Romania, Slovacchia, paesi baltici) potranno vivere una nuova età dell'oro nero e del gas. Uno sconvolgimento della petrofisica ed anche della geostrategia energetica che vale dai 17 milioni di barili al giorno aggiuntivi, già oggi estratti con il metodo fracking, fino ai 110 previsti entro il 2020. Una quantità quasi pari a quanto se ne consuma attualmente nel mondo. Insomma, l'asticella del peak oil si è spostata decisamente più in alto, regalando qualche decennio (quattro o cinque) di vita in più all'era dei combustibili fossili. A dispetto dei cultori del «picco di Hubbert», delle cassandre ambientaliste, dei gufisti antisistema e di tutti coloro che non hanno fiducia nella forza congiunta delle tecnologie e del mercato.
Certo, qualche «effetto collaterale» (esternalità negative) sull'ambiente il fracking rischia di provocarlo. Per sgretolare le rocce e strizzare il petrolio «uno solo pozzo ha bisogno di 15 milioni di litri d'acqua mista a proppant e altro» (Massimo Nicolazzi, «Ok, il prezzo è giusto. La grande svolta può ripartire», Il Sole 24 ore, agosto 2012). A pieno regime, si stima che i pozzi negli Stati Uniti, per esempio, si porteranno via dall'1 al 3 per cento del consumo totale di acqua. Il rischio dell'inquinamento delle falde è evidente. Lo smaltimento di scorie tossiche e radioattive è un problema. La subsidenza è certa e non sono esclusi del tutto i rischi di piccoli terremoti locali. Tanto che Francia e Bulgaria hanno dichiarato una moratoria sull'uso del fracking. In Italia, nel grossetano, la società multinazionale Indipendent Energy Solutions ha in concessione un giacimento di gas da 200 milioni di metri cubi. Il decreto per la crescita di Passera e Monti dichiara di voler incentivare l'estrazione di idrocarburi del territorio nazionale, fin sotto costa, per portare la quota di produzione nazionale dal 10 al 20 per cento del fabbisogno. Siamo forse noi italiani nelle condizioni di rifiutare simili opportunità?
I soliti ecologisti, però, non si danno per vinti e controbattono: ammettendo pure la possibilità di un aumento delle riserve, se continuiamo a prelevare e a bruciare combustibili fossili a questo ritmo rischiamo di morire asfissiati prima che il petrolio finisca.
Nessuno più nega che il pianeta si stia surriscaldando. Gli studi dell'Ipcc oramai non vengono contestati, anzi vengono utilizzati per dare grande impulso alle innovazioni tecnologiche della geo-ingegneria, che - sempre combinandosi con i meccanismi di mercato già inclusi nel Protocollo di Kyoto che assegnano un valore finanziario, tanto a tonnellata sulla Borsa di Londra, ai gas climalteranti - potrebbero in breve tempo frenare e mitigare gli effetti del riscaldamento climatico provocato dalla combustione del carbonio. Si va dalle piantagioni intensive di alberi geneticamente modificati destinati alla produzione di cellulosa, biocombustibili o altro, in «sostituzione» o in «compensazione» della distruzione delle foreste vergini, ad alcune tecniche più sofisticate che prevedono l'immissione nell'atmosfera di un aerosol capace di riflettere i raggi solari, oppure introdurre ioduro d'argento nelle nuvole per far piovere, oppure fertilizzare gli oceani con composti di ferro per catturare più anidride carbonica. Sono più avanti le sperimentazioni per pompare, immagazzinare e incapsulare nel sottosuolo le emissioni di CO2 delle grandi centrali termoelettriche: il famoso «carbone pulito», in nome del quale, per esempio, le autorità di governo italiane hanno concesso le autorizzazioni alla conversione a carbone della centrale di Porto Tolle, nel bel mezzo del parco del delta del Po.
Il clamore sul warming climate change è un'esca efficace per attirare denaro verso la green economy, verso le imprese eco-business friendly.
Infine la crisi economica che attanaglia l'occidente capitalistico da più di cinque anni consecutivi non è altro che un colossale stimolo per riprendere a crescere. I costi sociali per le classi povere e medie sono il necessario sacrificio per far rimbalzare i profitti, l'accumulazione, gli investimenti. Gli squilibri crescenti nella distribuzione dei redditi sono solo la conseguenza della giusta ricompensa che spetta agli individui più meritevoli o comunque più capaci di incrementare il valore del Pil in circolazione. Una élite di top manager, «ceo», «ad» con seguito di professionisti della politica nominati nelle istituzioni pubbliche, scienziati e comunicatori mainstream che guadagnano tutto ciò che c'è da guadagnare. Una superclasse che è riuscita a stabilire la propria dominazione sul mondo. Hanno scritto due economisti, Michael Spencer e David Brady (Il Sole 24 ore del 21 agosto): «L'innovazione tecnologica e le forze del mercato globale hanno dirottato il reddito verso il capitale e le fasce più alte, corrispondenti al 20% della popolazione, spesso a discapito del ceto medio, dei disoccupati e dei giovani. I beneficiari di questi trend hanno acquisito un peso politico tale da preservare lo status quo». Ciò che colpisce non è la loro abilità (leggi: cinismo, avidità, egoismo), ma la nostra soggezione.

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