VISIONI

Quelle eroine sciagurate in piazza e nei musei

SFERISTERIO - A Macerata la «Carmen» e la «Bohème»
TURCHETTA LUCIO,MACERATA

Il cielo blu smalto della sera estiva è cosparso di minuscole fiamme, sono nastri rossi appesi a lunghissimi fili tesi sulla platea dello Sferisterio che i riflettori accendono di uno scarlatto simile al sangue, unica nota di colore dell'opera in programma, Carmen, di George Bizet. Il lungo, lunghissimo palcoscenico è quasi interamente ricoperto da una coltre di terra color ocra, su cui spiccano le figure nerovestite delle forze dell'ordine, la milizia a cui appartiene lo sfortunato Don José, vittima predestinata della conturbante protagonista, Carmen, divenuta negli anni, dopo l'insuccesso della prima parigina, il 3 marzo 1875, il simbolo stesso della seduzione.
L'opera è stata data nell'edizione Choudens, cioè quella che quasi tutti conosciamo, approntata dopo la morte di Bizet, in cui il «parlato» tra le arie è stato trasformato in «recitativo accompagnato», cosa che se rende più agevole l'ascolto (e soprattutto non chiede ai cantanti doti recitative) indebolisce il contrasto tra la prosaicità della lingua quotidiana e l'improvviso sgorgare di melodie tra le più insinuanti, voluttuose e popolari del repertorio lirico, con un effetto che all'epoca dovette apparire sconvolgente.
Allo Sferisterio il direttore, Dominique Trottein, opta per una dinamica rilassata, quasi torpida, con inspettati «furiosi» quando canta Escamillo, il torero rivale in amore di Don José, interpretato dal baritono albanese Gezim Myshketa; la cosa funziona solo a tratti, per esempio nelle due arie di Manuela, il soprano Alessandra Marianelli, e soprattutto nell'entracte, reso quasi trasparente dalla squisita sensibilità con cui l'ha suonato l'orchestra marchigiana, latitava però quella pulsazione interna e febbrile che costituisce la cifra perspicua di Carmen, inteso sia come personaggio che come opera.
I due protagonisti, spigliati e perfettamente calati nella parte, hanno dato un contributo anche attoriale alla messa in scena, estremamente scorrevole, frutto della regia di Serena Sinigaglia: Carmen, il mezzosoprano Veronica Simeoni era sufficientemente fatale da rendere credibile (e non è facile) l'istupidimento totale del suo spasimante, Don Josè, a cui Roberto Aronica ha prestato la sua potente voce.
In un certo senso speculare era La Bohème che ha chiuso il trittico maceratese, fino al 12 agosto ogni week end vengono proposte Carmen, Traviata (ne ha scritto su queste pagine Fabio Vittorini) e, appunto, Bohème. Se il destino delle tre eroine è sciagurato - motivo diffusissimo nell'opera lirica dalla metà dell'Ottocento, ne ha parlato Simonetta Chiappini agli «Aperitivi musicali» - il percorso è assai differente, non solo per la diversità musicale, ma per l'atteggiamento degli autori. In un certo senso Bizet capisce Carmen, ma l'abbandona alla sua (mala)sorte; Verdi ha un atteggiamento ambivalente verso Violetta, la «traviata», che nelle lettere definisce «una puttana», mentre Puccini, col suo bigottismo piccolo-borghese, assiste all'atroce destino di una fanciulla innamorata rivestendolo della più coinvolgente colonna sonora mai immaginata. In Bohème, grazie alla bacchetta di Paolo Arrivabene, l'Orchestra regionale delle Marche ha ritrovato il «suo» suono, flessibile ma sempre compatto e vellutato, grazie al quale il direttore ha coinvolto in un discorso unitario musicisti e cantanti senza arenarsi nelle infinite circonvoluzioni della scrittura pucciniana.
Carmen Giannattasio era Mimì, dalla voce dolce e sapientemente modulata, Serena Gamberoni interpretava con foga Musetta, Francesco Meli è ormai una sicurezza del ruolo di Rodolfo, cui prestava il suo timbro giovanile, molto affiatati anche gli altri interpreti, grazie alla calcolata sfrenatezza della regia di Leo Muscato, che si muoveva in un'epoca incerta tra anni sessanta e settanta, colorata e ingenuamente ribelle negli slogan che comparivano sullo sfondo.
Insomma, un'aria nuova circolava in tutti gli spettacoli, evidentemente il passaggio dalla direzione artistica di Pierluigi Pizzi a quella di Francesco Micheli, regista giovane ma di lunga esperienza nel mondo dell'opera, è stato una decisa inversione di tendenza. Micheli interviene, spiega, si fa portavoce di un'esigenza di coinvolgimento e partecipazione che è culminata il 9 agosto, in cui Macerata è diventata un unico, immenso palcoscenico, dove si cantava e recitava in ogni strada e piazza e «piaggia».
A questa partecipazione popolare non sono sfuggiti nemmeno i musei, dove sono stati individuati dei «percorsi femminili», per rintracciare anche al di fuori della musica le storie di donne che, come Violetta, Carmen, Mimì, si sono dovute piegare alle ragioni della società degli uomini sotto una violenza che troppe volte è chiamata «destino».

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