VISIONI

Arie e virtuosismi, l'olimpiade delle voci a ugola spiegata

Lirica/ CON «ARTASERSE» DI HASSIE APRE IL FESTIVAL DELLA VALLE D'ITRIA
TURCHETTA LUCIO,MARTINA FRANCA

Il Festival della Valle d'Itria, tra i più antichi e prestigiosi d'Italia, che ha in esergo un verso di Torquato Tasso (« ... e dentro è l'uno, e di fuor l'altro io sento» dalle Rime), nel quale introduce il tema del complesso rapporto con l'altro da sé, si apre con l'Artaserse di Johann Adolf Hassie, (1699-1783), musicista tedesco di formazione e fortuna italiane. Non sorprenda il titolo, praticamente inedito, ulteriore esempio della spericolata programmazione che il Festival ha adottato fin dalla sua nascita, avvenuta grazie alla caparbia di Rodolfo Celletti, e che oggi prosegue nel suo orgoglioso percorso sotto la direzione di Alberto Triola e con finanziamenti regionali, che contano, di questi tempi nei quali il rifugio nel risaputo e quotidiano sembra la parola d'ordine di pubblicisti, assessori e direttori artistici, quasi a scudo dai tempi grami. Anche quest'anno scorrere il programma di Martina Franca è come atterrare su un altro pianeta, dove si incontrano Arvo Pärt e Leonardo Leo, Debussy e Kaija Saariao, a ricordare che non tutti sono rassegnati all'ovvietà. L'Artaserse è un fortunatissimo testo di Metastasio, messo in musica innumerevoli volte, che nel 1730 procurò al giovane Hasse, formatosi a Napoli con Nicola Porpora, un enorme successo sulle scene veneziane, anche grazie al fatto che il ruolo di Arbace era stato affidato «al Farinello», il castrato più famoso della storia dell'opera, anche lui di formazione napoletana.
Mi piacerebbe scrivere di quest'opera come di una vera «scoperta» ma, pur non essendo mai stata ascoltata in questa prima versione, e nonostante l'infaticabile invenzione melodica di Hasse, non si può dire che apra un capitolo nuovo nella riconsiderazione dell'opera settecentesca. Anche sull'accidentata edizione proposta, con tagli nei recitativi e inserti di arie da altre opere, ci sarebbe da eccepire: non potrò mai credere che dopo la straordinaria «Per questo dolce amplesso» - per di più affidata a Farinelli, che la cantò 'terapeuticamente' per 18 anni ai depressi sovrani di Spagna, non calasse trionfalmente il sipario sulla fine d'atto. Nell'Artaserse la successione di arie - interrotta da un solo duetto - composte nella nuovissima forma «col da capo» che consentiva al cantante, nella ripetizione della prima strofa, tutte le licenze e i virtuosismi che si poteva permettere, rischia la ripetitività soprattutto per la povertà dell'accompagnamento strumentale, affidato a un'orchestra estremamente ridotta e abbastanza monocroma nella sonorità, nonostante la direzione sensibile di Corrado Rovaris, anche al cembalo. Però l'opera del Settecento è ancora «barocca» perché deve meravigliare non attraverso la varietà degli accompagnamenti strumentali ma con i fuochi d'artificio del canto e il virtuosismo degli interpreti.
A Martina Franca sono stati ingaggiati degli specialisti, tra cui Anicio Giorgi Giustiniani nel ruolo del titolo, Maria Grazia Schiavo e Antonio Giovannini. Però, più «speciali» degli altri erano sicuramente il controtenore Franco Fagioli e Sonia Prina: il primo nel ruolo di Arbace, lo stesso di Farinelli, con arie sempre impegnative, culminanti nella terrificante «Parto, qual pastorello», vera parete di sesto grado canoro. A Sonia Prina è stato affidato, come parziale risarcimento del ruolo di Artabano, primario ma senza splendori melodici, l'incredibile «S'impugni la spada» dal Motezuma di Antonio Vivaldi, di delirante difficoltà; il pubblico ovviamente ha gradito, tributando a Fagioli e al contralto italiano delle ovazioni in puro stile «barocco», e uscendo provato ma sazio dalle quattro ore di spettacolo.

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