ITALIA

Decreti, equivoci e speranze: a proposito di immigrati e lavoro nero

GOVERNO & PRATICHE DI SFRUTTAMENTO
PUGLIESE ENRICO,

A fine della settimana scorsa, come un benevolo fulmine a ciel sereno, arriva la notizia di un decreto del governo riguardante i lavoratori immigrati occupati al nero e sottoposti al controllo del caporalato. La notizia è data dalle televisioni e dai giornali con grande enfasie e nell'area di centro sinistra, con grande entusiasmo. In effetti, a parte una comunicazione del governo, e una variegata e incoerente serie di indiscrezioni, non esiste alcuna documentazione. Né è stato pubblicato alcun decreto.
Perciò tutto quello che è stato detto o scritto sui giornali - o, con un tantino di competenza e informazione in più, sui vari blog e siti pro-immigrati - in effetti è frutto di (probabilmente legittima) deduzione. I grandi ambiti compresi nel provvedimento a venire (cioè che dovrebbe comparire prima o poi sulla Gazzetta Ufficiale) sono sostanzialmente due:
a) da un lato, l'aggravamento delle pene per chi impiega (al nero per definizione) lavoratori stranieri non regolari e la protezione accordata ai lavoratori occupati al nero che denunceranno coloro che profittano di questa situazione (imprese? oppure caporali, come hanno scritto i giornali?)
b) dall'altro, come una sorta di aggiunta a margine, la prospettiva di regolarizzazione per i lavoratori occupati alle dipendenze di aziende i cui titolari - secondo la dizione del ministro Riccardi - prenderanno iniziative di «operoso ravvedimento» mettendo in regola i loro dipendenti. Tale «ravvedimento» dovrebbe garantire agli immigrati l'accesso al permesso di soggiorno se ne sono stati sempre privi o se lo hanno perso per effetto delle norme persecutorie in materia, stabilite nello scorso decennio.
La notizia - per quel che si capisce - è senz'altro buona sia per il primo che per il secondo ambito di questioni. Per quanto attiene al «ravvedimento» in molti hanno fatto notare che si tratterebbe di una sanatoria. E - per come la vedo io - una sanatoria in questo campo, contrariamente a quanto si sostiene solitamente, è sempre un'ottima cosa. Lo si chieda a qualche immigrato costretto a lavorare al nero e a subire conseguenti ricatti perché privo di permesso di soggiorno («clandestino», come impropriamente si dice). Ma su questo tornerò. E, d'altronde, non è stato questo il punto principale che ha attratto l'attenzione dei media, dopo la dichiarazione del governo.
Al contrario, tutti si sono concentrati su di un aspetto dell'emanando provvedimento: quello relativo al permesso di soggiorno per le vittime dei caporali (e/o delle imprese) che denunciano il loro sfruttatore. Questa buona notizia però va inquadrata nel suo contesto e con riferimento agli effetti che sarà eventualmente capace di sortire. Innanzitutto, il provvedimento è in qualche modo il complemento di una norma di legge già approvata che istituisce il reato penale per l'attività di caporalato. Esso è inoltre in perfetta coerenza con le norme previste dalla direttiva Ue contro l'impiego di lavoratori presenti illegalmente sul territorio nazionale (detta impropriamente «direttiva sul lavoro nero»). L'aspetto positivo è che si introduce finalmente una garanzia per i lavoratori vittime dell'oppressione economica e sociale dei padroni e dei caporali.
Questo è davvero un grande passo in avanti. Fino a ora l'unica forma di lotta al lavoro nero - sotto i governi di destra e di centrosinistra - è stata quella contro i lavoratori al nero: vale a dire la loro individuazione, espulsione e detenzione (con prospettiva di deportazione) prima nei Cpt e poi nei Cie. Eventuali vertenze contro padroni e caporali li avrebbero solo messi allo scoperto con i rischi di espulsione. E questo è stato un forte deterrente. L'unico caso per il quale si prevedeva la protezione è quello in cui gli immigrati risultavano essere vittime della tratta di esseri umani e di riduzione in schiavitù (secondo l'articolo 18 della legge Turco-Napolitano). Ma raramente le vertenze hanno funzionato e hanno avuto esito positivo.
Non è facile dimostrare di essere tenuti in schiavitù, soprattutto quando non è vero. Supersfruttamento, condizioni di vita e di lavoro degradanti, discriminazioni, dover lavorare sotto la calura estiva senza acqua potabile a disposizione, abitare in un «ghetto» (come si chiamano gli aggregati di casupole o le semplici casupole abbandonate) non rappresentano una schiavitù (nel senso che non viene riconosciuto come tale). Nessuno, tranne il bisogno, costringe gli immigrati a lavorare in quelle condizioni. Non c'è sospensione di libertà individuale. Te ne puoi andare quando vuoi senza minacce per te o per la tua famiglia (come nel caso della tratta delle persone prostituite). Il caporale non costringe a lavorare: dà la possibilità di lavorare alle condizioni sue e dell'azienda. Con il nuovo provvedimento il ricorso all'articolo 18 della Turco-Napolitano non dovrebbe essere più necessario. Non c'è bisogno di dimostrare la schiavitù: basta esibire la prova di essere occupati in maniera non conforme alle norme di legge sul lavoro e l'immigrazione.
Vediamo ora quali sono i rischi e i limiti del provvedimento. Esso scaturisce dalla necessità di recepire la direttiva europea «contro il lavoro nero» rispetto alla quale l'Italia rischiava una ennesima procedura di infrazione. Ma per come la notizia è stata riportata dai giornali - e per quello che suggerisce la lettura dei documenti approvati nelle commissioni parlamentari - il permesso di soggiorno è subordinato alla denuncia dello sfruttatore (l'aguzzino hanno scritto in molti esagerando nei toni e determinando confusione). E l'accento è posto sul contrasto dell'impiego di lavoratori irregolari, cioè senza permesso di soggiorno, e non sull'affrancamento del lavoratore da una complessa pratica di sfruttamento che vede imprese e caporali sistematicamente impegnati e raccordati nell'obiettivo di tenere basso il costo della forza lavoro. E ci riescono benissimo se in tutte le aree agricole del Mezzogiorno dominate dal caporalato - quelle ad agricoltura ricca e mano d'opera povera - il salario giornaliero (cioè quello che i braccianti riescono a mettersi in tasca) tende a collocarsi intorno ai venti (venticinque nei casi più fortunati) euro, dopo il taglieggiamento operato dal caporale.
Questo vale per centinaia di migliaia di lavoratori e avviene in violazione di tutte le norme di diritto del lavoro e di tutti gli accordi sindacali vigenti. Il punto sta proprio qui: nel complesso meccanismo di sfruttamento dove a volte c'è l'aguzzino di cui parlano i giornali e dove invece sempre ci sono delle brave persone - imprenditori di buona famiglia e rispettati medi e piccoli agricoltori - che lucrano alla grande sull'esistenza di un mercato del lavoro destrutturato e governato dal caporale.
È la legge della domanda e dell'offerta. Ma il diritto del lavoro era nato e si era consolidato proprio per condizionare il funzionamento di questa legge attraverso la tutela del contraente debole. Ed è difficile trovare un contraente più debole dell'immigrato che lavora nell'agricoltura del Mezzogiorno. È contro le comuni e generali forme di grave sfruttamento lavorativo - praticate a livello di massa - che andrebbe indirizzato intervento. Ma siamo ben lontani da ciò. Infatti il cuore della direttiva e delle sue proposte di applicazione all'Italia - a parte la protezione accordata a chi denuncia - sta nel perseguire chi impiega dei lavoratori stranieri non regolari. Le cattive condizioni di lavoro sono un semplice corollario.
Torniamo al tema che ha avuto meno rilevanza nei media ma non tra gli immigrati: l'operoso - e costoso, ma si sa che pagheranno gli immigrati- ravvedimento di Riccardi. Auspicato dai lavoratori interessati, è criticato in quanto sanatoria da destra e da sinistra. Eppure, in mancanza d'altro, esso sana gli effetti della incapacità dei governi di condurre una politica migratoria realistica che faccia entrare chi vuole lavorare e non lo costringa a lavorare al nero. Perciò, auguri al ministro Riccardi, se questa è l'intenzione. E, please, chiamiamo le cose con il loro nome, così anche gli immigrati capiscono bene di cosa si tratta. È bene ricordare infatti che - per una mal riposta pudicizia - le sanatorie da oltre un decennio non si possono più chiamare con il loro nome. Prima sono state definite «provvedimenti per l'emersione», poi per buona parte degli anni duemila, «decreto flussi». E in questo caso tutto, per legge, si doveva basare su una menzogna: i datori di lavoro dovevano fingere di mandare a chiamare dall'estero quelli che lavoravano già per loro e gli immigrati dovevano partire di nascosto per poter ritornare ufficialmente fingendo un primo o, più raramente, un nuovo ingresso. Ora invece basta ravvedersi.
Certo la regolarizzazione non risolve tutto. Basti pensare al fatto che tra i gli immigrati occupati al nero, in condizioni non diverse da quelle che abbiamo prima evidenziato, ci sono molti lavoratori comunitari (bulgari, rumeni, polacchi) presenti legalmente nel nostro paese. Potranno forse gioire per l'inasprimento delle condanne nei confronti di impiega mano d'opera illegale. Ma la cosa non li riguarda, così come non li riguarda il permesso di soggiorno-premio di cui non hanno bisogno per stare in Italia o l'operoso ravvedimento del ministro Riccardi. Il problema - ancora largamente aperto - è quello della lotta al lavoro nero con relativa violazione dei diritti umani e sociali - e alle condizioni che lo determinano.

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