«Eppure le rovine che abbiamo evocato non sono quelle generate da una grande catastrofe, bensì quelle accumulate da una quotidiana sottrazione di persone, capitali e attività umane dispiegatesi nell'arco di alcuni decenni. Nel caso delle città della cosiddetta Rust Belt negli Stati Uniti - Detroit, Clevaland, Flint e Youngstown, fra le altre - non si è prodotto alcuno choc violento e improvviso. Ma solo una lunga agonia capace tuttavia di produrre un vertiginoso ammontare di macerie, sia materiali sia sociali». Così Alessandro Coppola al principio di Apocalypse town. Cronache dalla fine della civiltà urbana (Laterza 2012, pp. 232, euro 13), un testo che parla del declino violento di una porzione di America che era stata per decenni il cuore produttivo del paese, la rappresentazione materiale della vitalità degli Stati Uniti: centri operosi dinamici, pieni di fiducia nel futuro, nei quali anche il lavoratore della grande fabbrica era in grado di costruire un progetto di vita simile a quella della classe media della suburbia (grazie a un modello di relazioni industriali scarsamente conflittuale e capace di apparire come una «formidabile macchina di integrazione sociale»).
Il declino delle città della «cintura della ruggine» - quella fascia di territorio post industriale che parte dal Midwest e arriva sulle coste dell'Atlantico - viene qui raccontato a distanza di trent'anni dall'inizio del processo di disfacimento urbano ed economico di quelle aree. A esso consegue una perdita netta di potere politico nei confronti della Washington conservatrice: Nixon, Reagan, i Bush, ovvero i campioni del potere emergente della Sun Belt - gli stati che vanno dalla California al Texas, collettori di nuovi investimenti per infrastrutture, edilizia e impianti industriali di nuova generazione - nonché fautori dei tagli alla spesa sociale dei quali beneficiavano proprio le città della Rust Belt.
I luoghi che Coppola attraversa a tre decenni dall'inizio della fine sono cambiati per sempre, divenuti terreno di sperimentazione politica, urbana, sociale ed economica - la vecchia «Steel Town» di Youngston, in Ohio; la Baltimora del nuovo porto turistico, chiuso tra i due ghetti urbani che la deindustrializzazione si è lasciata alle spalle; la Buffalo capitale del riciclo, e poi Detroit, Filadelfia, Cleveland, Milwaukee. Volenti o nolenti, finita l'attesa per il ritorno di una civiltà industriale trasferitasi per sempre altrove, queste comunità sempre meno numerose e sempre più povere si sono adattate a cercare una loro via alla «decrescita» e/o alla ripianificazione urbanistica. Brutalmente, un modo per riorganizzare un nuovo ciclo urbano di produzione/consumo e utilizzo del suolo pubblico, allo scopo di garantire almeno i livelli minimi di sussistenza e convivenza.
Nel testo vengono squadernate e analizzate attentamente le ragioni del declino di un certo modello di civiltà urbana (nel capitolo «L'assassinio delle città» si sciolgono infatti i nodi di una matassa tutta americana, nella quale si intrecciano i processi di ristrutturazione mondiale del capitalismo degli anni '70, lo sviluppo della sprawl urbano e la contrapposizione razziale tra suburbia bianca e inner city afroamericana) ma il cuore del saggio è la vicenda umana di chi è rimasto, le storie (raccontate anche grazie agli estratti di un poderoso apparato di interviste e incontri avvenuti tra il 2008 e il 2011) di chi ha vissuto quel declino e ha cercato strade per ricostruire un'economia autosufficiente e il più possibile umana. Perché alcune storie sono realmente disumane, come quelle dei ghetti così poveri da divenire del tutto privi d'interesse per qualsiasi catena di supermercati, un fenomeno perverso che lascia i poveri diventare obesi grazie al consumo quotidiano di cibi economici offerti dai peggiori fast food del paese. E una delle reazioni, per esempio, è quella della creazione degli orti urbani e del buy local.
Se negli anni '90 gli Stati Uniti discutevano di Urban Revival - nel sud in crescita e nel nord est che aveva vinto la scommessa della terziarizzazione, secondo un paradigma trasformativo che ha avuto una forte eco anche qui in Europa - le aree studiate da Coppola sono ormai «morte abbastanza per poter rinascere». Si sono così affermate, per fortuna, per forza e per follia, nuove utopie di autosufficienza economica su base solidaristica - a volte dei veri e propri micro-millenarismi - che permettono a queste città in crisi irreversibile di diventare «luoghi perfetti per sperimentare quanto le retoriche dell'autosufficienza e della sostenibilità propongono in questo tempo di crisi».
Il libro affascina perché narra di scenari e luoghi post-apocalittici, di condizioni così estreme (contro le quali combattono minoranze attive eroiche e visionarie) da poter apparire irreali al lettore d'oltreoceano. Come al solito un paese così vicino e così lontano, persino esotico. La ragione ci dice che quell'Apocalisse è troppo americana per rappresentare il futuro delle città europee, figlia di un capitalismo troppo estremo per divenire uno scenario plausibile per le nostre vite; ma ugualmente il lettore è assalito dal dubbio che qualcosa di simile possa accadere anche a noi, alla civiltà urbana europea. Le saracinesche abbassate del centro di Atene sono un'esperienza troppo fresca per non agitare il nostro subconscio, che ci costringe infatti a misurarsi con l'esercizio praticato da Coppola: «pensate ai redditi perduti, ai mutui sospesi e alle case ipotecate, ai negozi che non hanno più clienti e alle casse comunali dissanguate dalle spese per l'assistenza sociale. Proiettate tutto questo su un paesaggio urbano che vi è familiare e fate delle ipotesi su come cambierebbe se accadesse quello che è accaduto alle città della Rust Belt».