Una bimba di nove anni corre nuda, assieme ad altri quattro bambini, verso l'obiettivo. Dietro di loro alcuni soldati, apparentemente calmi e indifferenti si stagliano su uno sfondo affumicato. La bambina è terrorizzata e piange. La foto non può dircelo, ma continua a urlare dal dolore: «Nòng qua, nòng quà!», «brucia, brucia!». E' il suo corpo che sta bruciando; la sua pelle abbrustolisce ricoperta dall'acido naftenico e palmitico rilasciato dalle bombe incendiarie al napalm (acronimo tratto dalle iniziali dei due acidi) lanciate da uno Skyraider sudvietnamita. Voleva colpire i comunisti nordvietnamiti attestati nel villaggio di Trang Bang, al confine con la Cambogia; ha invece centrato civili che stavano fuggendo dagli scontri per rifugiarsi nelle retrovie.
Era l'8 giugno 1972, esattamente 40 anni fa. L'immagine della bambina, che si chiamava Kim Phuc, scattata dal fotografo dell'Associated Press Nick Ut, fece rapidamente il giro del mondo, sfidando la censura del pudore che, sino ad allora, non voleva che fossero pubblicate foto con soggetti nudi.
La ragazzina fu portata all'ospedale dallo stesso Nick Ut e da Christopher Wain, giornalista della televisione britannica Itn, che aveva anch'esso filmato l'avvenimento riprendendo (e questo nella fotografia non lo si vede), una donna vietnamita frastornata che aveva tra le braccia il figlioletto di due o tre anni completamente bruciato dal napalm.
I medici disperavano di salvare la ragazzina: il 30% del suo corpo era ricoperto da ustioni di terzo grado. Ma vi riuscirono. «Ogni mattina l'infermiera mi toglieva lembi di pelle necrotizzati. Il male era talmente insopportabile che ogni volta svenivo» ricorda Kim Phuc. Quattordici mesi e diciassette operazioni dopo poté lasciare l'ospedale e cominciò a studiare medicina, la sua passione. Voleva diventare medico per aiutare le vittime di guerra come lei, ma il governo vietnamita, dopo la vittoria del 1975, aveva altri progetti, trasformandola in «simbolo nazionale di guerra» e presentandola alle troupe giornalistiche in visita nel paese. «Raccontare continuamente la mia storia davanti a telecamere e microfoni, era come rivivere quel giorno con tutto il dolore psicologico e fisico che comportava. Giunsi a desiderare di essere morta quell'8 giugno 1972».
Nel 1982 Kim Puch abbandonò la religione di famiglia, il caodaismo, per abbracciare il cattolicesimo. «Leggendo la Bibbia cominciai a rinascere. Dio mi ha salvato ridandomi fede e speranza», risponde a chi le chiede come ha superato il dolore e lo stress mentale. E se la fede ha aiutato Kim Phuc a ritrovare la fiducia nel futuro, è stato il primo ministro vietnamita Pham Van Dong a farle realizzare il sogno di diventare medico. Capendo il disagio che subiva nel ricordare il suo dramma, Pham Van Dong le permise di studiare medicina a Cuba. Fu qui che conobbe Bui Huy Than, che nel 1992 divenne suo marito. Viaggio di nozze a Mosca e al ritorno l'aereo si fermò in Canada per uno scalo tecnico. I due sposini si presentarono al banco immigrazione chiedendo asilo politico.
Da quel giorno il Canada divenne la nazione adottiva di Kim Phuc, che oggi vive, madre di due figli, ad Ajax, nell'Ontario. Il governo vietnamita, dopo l'iniziale comprensibile irritazione per il «tradimento» di un'icona antiamericana, ha compreso la scelta di Kim Phuc, ospitandola ufficialmente più volte nel paese. Lei, dal 1997, è stata nominata ambasciatrice dell'Unesco e, dopo aver fondato la Kim Phuc Foundation dedica la sua vita alla riabilitazione fisica e psicologica delle vittime di guerra. Lei, che la guerra l'ha subita sulla propria pelle.