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I condannati ai container di Van, L'Aquila turca

blog notes
CUSCUNA GIACOMO,

Ecco un nuovo post fra quelli che parteciperanno al concorso giornalistico lanciato dal manifesto in collaborazione con il Premio Ischia, il think-net VeDrò e la società di comunicazione Contesto. La premiazione del o della miglior blogger (che dovrà avere fra 16 e i 35 anni al massimo) avverrà durante il Premio Ischia, il 29 e il 30 giugno prossimi. Mancano pochi giorni allo scadere del concorso. Tutti i post che non riusciremo a pubblicare sul manifesto saranno però pubblicati sul nostro sito, www.ilmanifesto.it.
Il post che segue è tratto daldal blog Canedariporto, «un blog scritto da un volontario Sve, sugli aspetti sociali della vita e sui rapporti tra curdi e istituzioni turche nel sud dell'Anatolia». Lo firma Giacomo Cuscunà.


Più di 600 morti e 1300 feriti. Oltre 30 mila case distrutte o danneggiate. Questi i numeri dello sciame sismico che ha colpito la città di Van, nel sud est della Turchia, il 23 ottobre 2011 e nei giorni successivi. Una città di 600 mila persone che in pochi giorni si è riscoperta morta. Senza case, negozi e senza le luci del lungolago che l'avevano resa famosa.
«A sette mesi di distanza la città sta tornando lentamente a vivere», racconta Nejdet, un giovane avvocato di 24 anni cresciuto qui. E prosegue: «Nei giorni in cui è successo il disastro non ero in Turchia: stavo svolgendo un periodo di volontariato in Italia. È stato duro non riuscire ad avere notizie dirette da parte della mia famiglia». Ci racconta questa storia mentre prendiamo un tè seduti sul lungolago qualche chilometro fuori Van, a pochi metri dal portone di uno dei villaggi di container predisposto dalle autorità dove vivono gli sfollati ancora senza casa come lui. «Nell'area metropolitana ce ne sono circa 30 mila, raggruppati in aree che ne contengono circa 200 ciascuna. Non è facile viverci, durante l'inverno fa molto freddo, Van è a 1700 m.s.l.m, e i container stessi sono piccoli e non permettono una vita normale».
Il filo spinato attorno all'insediamento conferisce un aspetto tetro a tutto quello che si vede. Una via di mezzo tra un campo di concentramento e un carcere a cielo aperto. La sera solo poche figure spettrali si aggirano sulle strade di terra battuta, mentre la mattina i bambini escono dai cubicoli grigi e cercano di ritrovare una certa normalità giocando a palla e correndo qua e là.
Volkan, un amico di Nejdet che insegna inglese nelle scuole elementari della città, descrive la situazione dei piccoli studenti che hanno vissuto il terremoto: «Ogni bambino ha avuto qualche lutto in famiglia o la casa danneggiata o distrutta. Lo shock per loro è stato enorme e l'assistenza psicologica è una necessità». Volkan spiega però che ora, nel post emergenza, le attività a sostegno della popolazione sono poche e di fatto sono gli stessi insegnanti che cercano di seguire i bambini anche da un punto di vista umano.
Se nei primi mesi gli sforzi delle istituzioni sono stati notevoli, ora il clima è cambiato. Il Governo ha chiesto alle famiglie rimaste sfollate di contribuire economicamente alla ricostruzione delle abitazioni colpite e la larga fetta di popolazione dell'area che non ha le risorse per farlo risulta condannata a rimanere nei container o nelle tende per un lungo periodo.
Inshallah


www.canedariporto.it/Cane_da_Riporto/SVE/SVE.html

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blog.notes@iImanifesto.it

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