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Ascoltando Macao

VIALE GUIDO,

La cultura, oppressa da trent'anni di televisione, di marketing e di carrierismo craxiani e berlusconiani torna a prendersi la scena nel modo più impensato: prima con l'occupazione del teatro Valle di Roma e la presa di parola della generazione TQ (i trenta-quarantenni); ora con la forza aggregante di Macao a Milano e, tra le due, e intorno a loro, un'altra decina di occupazioni di cinema, teatri, locali in varie città d'Italia: per "fare cultura".
Cultura e arte sono scienza del possibile: potenze che scardinano l'appiattimento sulle necessità imposte dai "fatti compiuti". Il conformismo dei passati decenni era un coperchio su una pentola in lenta ebollizione: una volta sollevato, le spinte sociali sono destinate a esplodere; analogamente a come quattro decenni fa la delegittimazione dell'ordine costituito prodotto dal movimento degli studenti aveva spalancato le porte all'offensiva operaia e sociale degli anni '70. Nelle assemblee di queste nuove aggregazioni si discute (a volte in modo ingenuo e disordinato: ed è un loro pregio) soprattutto di partecipazione, di democrazia diretta, di regole e garanzie per assicurare a tutti la possibilità e il diritto di esprimersi e di portare il proprio contributo alla crescita di tutti; in modo del tutto simile a quello che ha tenuto occupati per giorni gli acampados spagnoli o i partecipanti di Occupy Wall Street e delle mille repliche che hanno investito gran parte delle città statunitensi; ma anche in tante altre sedi, come le riunioni della per ora ancora piccola Alba.
La novità maggiore di questa nuova stagione sta proprio qui: cultura e democrazia, nel senso di partecipazione, coincidono. Non c'è cultura se non ha come suo humus la valorizzazione del contributo di conoscenze, di esperienze, ma anche e soprattutto di vissuto, di sentimenti e passioni, di tutti coloro che vogliono concorrere a un risultato condiviso; e viceversa, la democrazia non è e non può essere un mero insieme di regole - che pure vanno fissate e aggiornate in corso d'opera - ma è un regime di condivisione di saperi, sia specialistici che pratici, "mettendoci la faccia"; e mettendo in gioco i propri corpi, come la modalità delle occupazioni mette in evidenza. È una nuova declinazione del rapporto tra arte e vita. Dicono a Macao: «Si produce democrazia facendo arte e si fa arte con la democrazia».
Mettendosi in ascolto da "esterno" (se non altro per motivi generazionali), cioè attraverso una lettura critica di quanto riportano i media e i social network, più qualche sporadica partecipazione alle assemblee di Macao, ma potendo contare su un background di occupazioni, di esperimenti di democrazia partecipativa e di riflessioni condivise, a me sembra che la vicenda di Macao possa insegnare a tutti alcune cose (senza ovviamente escluderne altre, che sicuramente mi sono sfuggite) che derivano direttamente dalle sue pratiche. Innanzitutto le donne e gli uomini («i ragazzi», come li chiamano i media) di Macao non sono alla ricerca solo di uno spazio in cui rinchiudersi per sviluppare insieme le loro attività (si considerano soprattutto, anche se non in modo esclusivo, "lavoratori dell'arte"). Vogliono «aprire alla cittadinanza» una serie di spazi che la proprietà, sia pubblica che privata, ha tenuto sequestrati per decenni, escludendola, senza alcun tornaconto né pubblico né privato se non quello di nasconderli per procede più liberamente nello scempio della città.
La scelta della torre Galfa è esemplare: un immane spazio per uffici tenuto vuoto dal principale speculatore edile (di Milano e non solo), mentre a pochi metri di distanza è cresciuta - seppellendo sotto il cemento uno dei quartieri storici più popolari e "vissuti" della città - una foresta di grattacieli altrettanto inutili. Tra cui la nuova residenza di Formigoni (con annessa piattaforma megagalattica di atterraggio per la discesa dal cielo del "Celeste"): una scandalosa duplicazione del Pirellone, la cui acquisizione aveva simbolizzato, già trent'anni fa, il passaggio della guida della città dalla borghesia industriale alla casta politica e speculativa; poi il "bosco verticale": un grattacielo alberato progettato dall'attuale assessore alla cultura, già estensore del Masterplan di Expo 2015 (la maggiore "palla al piede" della giunta Pisapia) e di quello del mancato G8 alla Maddalena; oppure il grattacielo Unicredit, che grazie a un vistoso pinnacolo ha vinto la gara di erezione ingaggiata con Formigoni: costruito da Ligresti con fondi Unicredit che glielo ha poi comprato nel tentativo di non farlo fallire, accollandosi l'ennesimo sperpero dei costruttori milanesi in bancarotta. E molte altre torri ancora.
Diversa ma analoga è la storia di Palazzo Citterio: comprato dallo Stato quarant'anni fa per dare respiro alle contigue Accademia e Pinacoteca di Brera, è rimasto vuoto fino all'ingresso di Macao; ma è riuscito a inghiottire decine di milioni (di euro) e di miliardi (di lire) senza farne niente, anche grazie alle cure dell'ex Ad di McDonald's Mario Resca, promosso direttore generale dei Beni culturali, e non senza l'assistenza della cricca Bertolaso, nella persona del sub commissario Mauro Di Giovampaola. Adesso gridano che l'occupazione sta bloccando la ristrutturazione della Grande Brera. Tanto "grande" da non poter più contenere gli studenti dell'accademia, che il progetto confina in una ex caserma fuori mano (rompendo la continuità tra museo e Accademia che è uno dei grandi atout di queste istituzione); per non turbare un quartiere diventato chic nel corso degli anni e per non "inquinare" il vero progetto, dato che l'annessione alla Pinacoteca di Palazzo Citterio, che forse comincerà solo tra un anno, servirà soprattutto per creare spazi per attività commerciali attraverso cui far transitare gli sfortunati visitatori (il famoso concorso pubblico-privato auspicato dal ministro Ornaghi per coprire finanziamenti che lo Stato promette ma non dà). Così Macao ha messo in grado i cittadini di Milano, e non solo loro, di venire a conoscenza di queste scelte e, se vogliono, di discuterne, contestarle e prendere posizione.
Con queste premesse c'è solo da augurarsi che Macao cresca e le occupazioni si moltiplichino. Per questo a chiedere lo sgombero immediato di Macao e la messa sotto accusa di chi tollera l'occupazione, per prevenire "vandalismi" su un palazzo del '700 sono soprattutto i rappresentanti del centrodestra cacciati dal governo della città (i veri vandali di Milano: quelli che l'hanno sfigurata); ma anche la componente più oltranzista del Pd e la burocrazia di Stato che ha in custodia l'edificio e che improvvisamente scopre nell'occupazione una congiura per bloccare lavori fermi da quarant'anni.
Ma si riscontra con rammarico una generale ostilità, dai toni accesi e a volte inaccettabili, anche tra molti esponenti di quei comitati per Pisapia (ora trasformati in Comitati per Milano) che hanno portato alla vittoria l'attuale sindaco; perché vedono nell'occupazione una messa in discussione dell'operato della giunta, mentre Macao potrebbe dare una spinta verso forme più aperte di coinvolgimento della cittadinanza; soprattutto per superare l'immobilismo dell'assessorato alla Cultura. In secondo luogo Macao non cerca solo luoghi per il proprio lavoro (di qui gli equivoci sul rifiuto di accettare uno spazio nelle ex Officine Ansaldo, offerto dalla Giunta per «calmare le acque»), ma una vera politica culturale - ora del tutto assente - all'interno della quale si aprano spazi e opportunità per il "saper fare" di migliaia di giovani acculturati, creativi, altamente "informatizzati" e "connessi", oggi condannati alla disoccupazione, al precariato, al lavoro sottopagato negli studi di professionisti che li sfruttano senza dar loro, né essere in grado di dar loro, niente; anche perché nella maggior parte dei casi i loro saperi sono irreversibilmente inquadrati nell'orizzonte speculativo e omertoso dei rapporti di potere vigenti. Eppure le opportunità per questo esercito di creativi alla ricerca di un percorso da condividere non mancherebbero: basta pensare che le quattro più quotate scuole di design della città (che in qualche modo vuol dire anche d'Europa) erano pronte a entrare nella torre Galfa, se non fosse stata sgomberata, per tenervi dei seminari: e non (solo) per un atto di benevolenza, ma perché sanno che è in processi come Macao che si sviluppa la potenza della creatività diffusa. In terzo luogo gli occupanti di Macao sono effettivamente, in grandissima maggioranza, giovani e molto giovani.
E sono stati attratti in migliaia, come da una calamita, a sostenere l'occupazione sotto la torre Galfa e a Palazzo Citterio: questo dovrebbe far riflettere partiti, associazioni e organismi politici, spesso prevalentemente frequentati (compresa Alba) da persone mature o decisamente anziane (come il sottoscritto). Ma il mondo di domani si costruisce in eventi come questo o non si produce affatto (e si sottomette così ai diktat della gerontocrazia finanziaria che governa il mondo: certamente coadiuvata da un esercito di giovani rampanti, da cui non c'è però da attendersi niente di buono). Porsi in ascolto di processi come questo è indispensabile se si vuole ricostruire un ponte tra generazioni che il trentennio craxiano e berlusconiano ha reso reciprocamente estranee, mettendo alle strette chi lavora a deprimere (e reprimere) una intera generazione, denigrandola come priva di idee, di cultura e di desiderio; e trattandola come prigioniera di pulsioni al godimento senza regole né limiti prospettato dal consumismo.
Quella prigione esiste davvero; l'hanno costruita le generazioni precedenti (compresa, in parte, la mia) e vi hanno rinchiuso dentro quelle successive, facendo di quella prigionia un alibi per la propria passività e - spesso - il proprio asservimento. Ma vicende come quella del teatro Valle e di Macao dimostrano che tra le nuove generazioni il desiderio di liberarsi da questa gabbia c'è, eccome; e che è culturalmente più agguerrito di quello che molti pensano.

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