LA STORIA

Un tunisino ucciso risveglia il razzismo

Ravenna
ANGELINI FEDERICA,RAVENNA

Era il giorno di Pasqua, quando la città si è dovuta rendere conto che il problema è forse più grave di quanto fosse mai sembrato. Il razzismo, quello più profondo e carico di odio, da quel giorno è emerso con tutta la violenza verbale possibile nei bar, per strada e nella nuova piazza virtuale dei social network. Come se, la notte prima, uno straniero avesse ucciso qualcuno. E non viceversa.
La morte di Hamdi
L'8 aprile muore infatti a Ravenna, in centro città, Hamdi Ben Hassen, tunisino di 27 anni, colpito da un proiettile sparato da un carabiniere. I militari dicono di aver agito per legittima difesa, visto che l'uomo, dopo una lunga fuga in cui aveva saltato due posti di blocco, avrebbe cercato di investirli. Non solo, uno dei due connazionali a bordo della sua Audi avrebbe puntato contro i militari una pistola giocattolo. Quattordici spari: dodici dalla pistola di uno due dei uomini in divisa, due dal collega. A uccidere Hamdi, poche ore dopo il ricovero in ospedale, ne è bastato uno, entrato nel fianco sinistro. I tre tunisini, che erano stati a una festa in spiaggia, risulteranno positivi all'alcotest. Ora i due carabinieri sono indagati per omicidio colposo, mentre i due tunisini illesi sono indagati per tentato omicidio. Uno di loro, di 34 anni, è ancora in stato di arresto, mentre il più giovane, 25 anni, è stato rilasciato poche ore dopo i fatti. Entrambi negano di aver mai avuto con sé pistole giocattolo. Entrambi sono in Italia da circa un anno con un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Hamdi, invece, era in Italia da cinque anni, con un regolare permesso. Alle spalle qualche precedente per spaccio e resistenza.
Un anno con i profughi tunisini
Per capire perché ci sia stato chi ha gioito della morte di Hamdi bisogna forse partire da qui. Dall'arrivo in massa a Ravenna, lo scorso anno, di profughi tunisini. D'estate il mercato della droga è fiorente sulla costa, ed è forse per questo che in città arrivarono decine di ragazzi tunisini, tutti uomini, giovani, disoccupati, tutti con un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Fino a duecento persone che avevano abbandonato i progetti di accoglienza cui erano destinati chiamati in città, dicevano, da amici e parenti. Di fatto i ragazzi passavano gran parte del proprio tempo nei pressi della stazione, dormendo in case e hotel abbandonati. E creando i primi malumori tra i residenti, come da copione. La politica, il volontariato, le istituzioni sembravano, semplicemente, ignorarli. Almeno fino a settembre, quando nella centralissima via Cavour, nell'ora di punta del passeggio settimanale, scoppia una violenta rissa tra due gruppi di tunisini. Si parlò di una contesa generazionale per il controllo del mercato della droga. E i tunisini divennero, da quel giorno, tutti brutti e cattivi. Ma almeno iniziarono a esistere. Avevano il permesso in scadenza a ottobre e allora il sindaco non trovò di meglio che augurarsi che i documenti non fossero rinnovati, sognando espulsioni di massa. Ma i permessi furono rinnovati, mentre non tutti gli impegni dei piano profughi furono mantenuti dalla Protezione civile. Intanto qualcuno iniziò a porsi il problema: dove dormiranno con il freddo? Basta addirittura l'ipotesi di una loro presenza nella struttura d'accoglienza di una parrocchia per scatenare nel quartiere una paura isterica. Il parroco viene insultato dai fedeli. Non manca chi propone una selezione dei senzatetto all'ingresso per lasciare fuori proprio i tunisini. Alla fine, Caritas e Comune fanno dietrofront: l'alloggio sarà predisposto molto fuori città, dove nessuno potrà raccogliere firme. Nel frattempo, però, l'amministrazione riesce finalmente anche a instaurare un dialogo proficuo con alcuni profughi e le famiglie tunisine che abitano in città da anni si organizzano per dare una mano. Nasce anche un gruppo di reazione al dilagante razzismo: Rompere il silenzio. Ciononostante i resoconti delle forze dell'ordine sono avvilenti: troppi profughi tunisini si stanno macchiando di piccoli reati, dal furto allo spaccio.
Le reazioni della comunità tunisina
In questo clima di tensione sedato ma non placato, a poche ore dalla morte di Hamdi Ben Hassen decine di tunisini si ritrovano nella piazza centrale, davanti alla Prefettura, a chiedere giustizia per il loro connazionale. Tra loro ci sono tanti profughi, ma anche immigrati di più vecchia data. Molti sono già noti alle forze dell'ordine. Danno vita a un sit in silenzioso sfoggiando la foto di Hamdi e tra loro c'è molta rabbia. Non credono alla versione dei militari, negano che potesse avere una, anzi due, pistole giocattolo. Insomma, danno all'omicidio uno sfondo razziale. «È stato ucciso come un cane», ripetono. «Era un bravo ragazzo». «Non si era fermato al posto di blocco solo perché stava guidando senza patente, nulla di più». È merito della polizia che li affronta con grande pacatezza se quel giorno, in cui la tensione si taglia con un coltello, non succede nulla. Dopo qualche ora, i manifestanti si allontanano al grido di «carabinieri assassini» per le vie del centro. Mettetevi nei panni di un passante o un turista che da anni viene bombardato sull'allarme sicurezza e potreste avere paura. Si tratta di una manifestazione non autorizzata, così come non lo è quella di due giorni dopo. Questa volta sono almeno centocinquanta e c'è anche qualche ragazza. Arrivano davanti al tribunale a chiedere giustizia invocando Allah, anche se, ai giornalisti, dicono di fidarsi della giustizia italiana e in particolare della pm a cui è affidata l'inchiesta. Dicono di voler continuare a manifestare tutti i giorni e, in particolare, annunciano per il sabato seguente un imponente corteo con tunisini provenienti da tutta Italia.
Le reazioni della città
Un fallimento che impone riflessioni Un po' sotto choc, la politica, le istituzioni e i partiti del centrosinistra, qui in maggioranza, tardano almeno un giorno a commentare l'accaduto lasciando per molte ore campo libero al centrodestra. In particolare al Pdl locale che aizza gli animi contro tutti i tunisini e ai molti che chiedono le dimissioni della giovane assessora a sicurezza e immigrazione Martina Monti. Ma lasciando soprattutto campo libero a tutto l'odio accumulato durante l'inverno. Da più parti fiocca la solidarietà ai carabinieri e sui social network c'è chi non si vergogna a definire quella morte «il più bel regalo di Pasqua». Il sindaco Fabrizio Matteucci assumerà una posizione meditata, ripetendo il suo leit-motiv: non bisogna distinguere tra italiani e immigrati, ma tra chi è per la legalità e chi no. Sel e Pd stigmatizzano cortei e passeggiate. Già perché, guidate da un noto albergatore della città, alcune decine di persone il lunedì sera si ritrovano in stazione per una «passeggiata di riflessione» cui aderisce il centrodestra. Nel corso della settimana, tuttavia, il consiglio comunale voterà unanimemente il cordoglio per la vittima e la solidarietà all'Arma, mentre la Prefettura dispone che non saranno più tollerate manifestazioni non autorizzate. Intanto, ci si prepara per quella massiccia del sabato. In città si attendono centinaia, forse un migliaio di persone. Sono chiamati i rinforzi da Bologna. Agenti in tenuta antisommossa presidiano il centro già dal venerdì.
Quel corteo non s'ha da fare
Alla fine, sono i tunisini stessi a rinunciare al corteo, forse perché temono incidenti. Di sicuro c'è stato un fitto lavorio di moral suasion venuto soprattutto dalle segreterie dei partiti con quelle che sono ritenute le figure più autorevoli e di specchiata onestà della comunità tunisina, le quali alla fine riescono a far prevalere la prudenza su tutti. Non ci saranno incidenti, non ci saranno singoli che tentano comunque di improvvisare un presidio. Non altrettanto ragionevoli si mostrano invece i militanti di Forza Nuova che per il lunedì seguente avevano organizzato una fiaccolata di solidarietà ai carabinieri. Il Questore nega loro l'autorizzazione e alla fine li costringe a una cena in pizzeria. Quella sera stessa, però, una trentina di ragazzi dei centri sociali si ritrovano a Ravenna per contromanifestare. Alla fine, loro sono gli unici a scendere in piazza, in una città blindata e impaurita. Verranno circondati da un numero di agenti di gran lunga superiore a quello dei manifestanti, portati in questura, identificati e denunciati per manifestazione non autorizzata. Il tutto senza suscitare la simpatia di nessuno, semmai esasperando ulteriormente gli animi. E almeno per adesso i cortei sembrano finiti qui, visto che anche l'opposizione di centrodestra ha rinunciato all'odg in cui chiedeva una manifestazione sponsorizzata dal Comune.
Un fallimento che impone riflessioni 
Nel dibattito, intanto, è intervenuta anche la rete antirazzista della città che ha stigmatizzato soprattutto l'abuso di alcol, all'origine della fuga che ha poi portato alla morte di Hamdi. Di certo non è l'alcol che ha alimentato, però, l'odioso razzismo che troppi si sono sentiti legittimati a esprimere di fronte a questa tragedia. Da parte loro, i tunisini, scendendo in piazza, pur se pacificamente, hanno sicuramente acceso gli animi. Non è da escludere che alcuni siano stati strumentalizzati da qualcuno che aveva altri scopi. Il punto è che è facile farsi strumentalizzare in nome dell'appartenenza quando ci si sente esclusi e quando magari, durante i normali controlli di routine, agenti e militari non ti trattano proprio con i guanti di velluto, quando vivi in una città che ti guarda con sospetto. Allora magari è facile credere a chi ti dice: hanno ammazzato uno dei nostri. Ed è proprio qui che sta il fallimento. Come è possibile che in una città all'avanguardia nelle buone prassi sull'immigrazione, che vanta il festival delle culture, dove operano decine di associazioni, dove gli immigrati votano i consiglieri aggiunti, ecco, come è possibile che di fronte alla morte di un ragazzo di 27 anni qualcuno possa pensare «hanno ammazzato uno dei nostri» o, ancora peggio, «hanno ammazzato uno dei loro»? Significa forse che l'azione a livello locale non può comunque reggere l'onda d'urto delle pessime politiche sull'immigrazione del governo? O significa che anche l'agire locale va continuamente mutato e nulla va dato mai per acquisito? Cosa non ha funzionato? Ora che tutti sembrano aver abbandonato l'idea dei cortei, magari, sì, adesso è il momento di aprire una riflessione.

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