L'ULTIMA

Piadena I NUOVI PAISAN

storie
PUGLIESE ENRICO,

Viaggiando verso Piadena da Parma in treno o in macchina all'imbrunire si rimane sorpresi per la bellezza del paesaggio padano. Naturalmente uso il termine Padania alla maniera antica, quella che riguarda appunto la pianura che porta questo nome. E più specificamente mi riferisco alla "bassa". Insomma parlo della Padania vera non di quella inventata da Bossi e Maroni delle enclaves montane della piccola industria diffusa e della grande evasione fiscale. A seconda che ci mettiamo sulle onde lunghe o le onde brevi della storia il paesaggio è antico o nuovo. È nuovo perché è il frutto delle grandi trasformazioni fondiarie e agrarie della seconda metà dell'Ottocento con la creazione delle sterminate aziende capitalistiche. Si pensi che nella provincia di Cremona nella seconda metà dell'Ottocento l'incidenza dei terreni condotti in affittanza capitalistica - che in senso marxiano è la forma pura e specifica della presenza del capitalismo in agricoltura - era pari all'80%, molto probabilmente la più alta d'Europa. Ed è proprio a questa realtà dell'agricoltura e ai rapporti sociali di produzione che ad essa corrispondono (con relativi contrasti e ingiustizie di classe) che va collegata la bellezza del paesaggio all'imbrunire. A questi rapporti di produzione si devono gli enormi spazi movimentati solo da lontanissime file di alberi dietro le quali la luce soffusa del tramonto fa intravedere le splendide costruzioni delle cascine.
Questo per quel che riguarda le onde lunghe. Se però andiamo all'oggi e alle trasformazioni recenti il nuovo è altro. Bisogna in primo luogo aguzzare la vista: le cascine sono spesso abbandonate. E anche quelle che ci sono conservano solo la struttura fisica: la vita che vi si svolgeva, la gente, i lavoratori, i bambini, gli animali da cortile, non si sentono più, non ci sono. Al posto di centinaia e centinaia di lavoratori, di paisan, ci sono pochi lavoratori che da soli con tante macchine, tanta chimica, cioè veleni, producono molto di più di quelli di prima. Il paisan della bassa padana si è trovato inserito da oltre un secolo in rapporti di produzione capitalistici moderni con una contrapposizione di classe chiara ed evidente come poche: da una parte i signori dall'altra il bracciante agricolo, anzi il bergamino, l'operaio della stalla con il basco "inamidato" dallo sterco di mucca, come nella bellissima fotografia di Pierino Azzali (padre di Gianfranco Azzali, "il Micio", cuore politico e organizzativo della Lega di cultura popolare di Piadena). Ora quel mondo dei paisan è scomparso. O meglio ci sono dei paisan nuovi: indiani, pachistani, camerunensi, quelli che sono rappresentati nei nuovi lavori della Lega di Piadena e ai quali la Lega intende dare voce.
«Questa è la mia Africa e mi ci trovo bene» afferma Giuseppe Morandi citando il titolo di un libro con le sue foto di immigrati. E questo modo di porsi a me sembra particolarmente importante come elemento di continuità e al contempo di innovazione, di valorizzazione dell'esperienza passata e di sforzo perché essa non si riduca solo a un ricordo nostalgico o a uno lavoro accademico sulle culture di classe di una volta.
Questa voglia di andare avanti, di far conoscere il senso e l'attualità del lavoro di ricerca musicale e di altre espressioni culturali delle classi oppresse è stato l'elemento caratterizzante dell'incontro di Piadena dedicato ai cinquanta anni del Nuovo Canzoniere Italiano e svoltosi nel fine settimana scorso: una grande festa che per tre giorni ha tenuto impegnate alcune centinaia di persone con dibattiti colti e politicamente densi, ma anche con esibizioni di bande e di cori, insomma con tanta musica e poi - a Piadena, dal Micio, va da sé - tante allegre mangiate perché così deve essere ( e per fortuna è) nelle feste proletarie, anche quelle dove «si ragiona e si canta». E, come qualche lettore del manifesto ricorderà, "Ci ragiono e canto" e "Bella ciao" sono state due grandi spettacoli di musica e canzoni popolari - frutto della ricerca sulle espressioni musicali di una cultura di classe - che hanno avuto una grande importanza e che hanno fatto parte del bagaglio culturale e politico della sinistra, soprattutto tra i giovani, negli anni sessanta e settanta.
In occasione della festa-convegno è stato ripubblicato dal Nuovo Canzoniere lo splendido diario tenuto da Giuseppe Morandi nei giorni della presentazione di "Bella ciao" al Festival dei Due Mondi di Spoleto. In quella occasione a Spoleto successe di tutto e di più. Squadre di fascisti venuti apposta per interrompere lo spettacolo. Ufficiali in congedo indignati che urlano e sporgono denuncia perché non gli era scesa "Gorizia" («Oh Gorizia, tu sei maledetta ...») perché parlava dei poveri soldati mandati a morire e degli ufficiali «venditori di noi carne umana» che se ne stavano «con le mogli nei letti di lana» e chiamavano «il campo d'onore questa terra di là dei confini». Scontri tra compagni operai (proprio così) e provocatori fascisti. Scontri quasi fisici tra compagne (anche protagoniste dello spettacolo) e "contesse" locali. Giorgio Bocca - mi ha fatto piacere ritrovarlo nel "Diario" - che urla a una di queste ultime particolarmente esagitata «vattene via brutta carampana» giacché il suo terragno animo cuneese lo spingeva dalla parte di chi portava la voce della classe oppressa, dei contadini (e voleva cantare in pace le canzoni di lotta). Giovanna Marini che tenta di spaccare la sua chitarra in testa all'energumeno fascista che dava l'assalto al palco (fermato in tempo dai compagni ). L'opportunismo di Giancarlo Menotti, creatore del Festival, che deve arrangiarsi tra le pretese e la retorica patriottarda di ufficiali e fascisti (e i padroni americani) da una parte e l'irriducibilità di Gianni Bosio e di tutta la compagnia dall'altra.
Nel corso dei cinquant'anni passati ho avuto diverse versioni di questa storia. La prima relativamente a caldo dall'Espresso - che all'epoca degli eventi leggevo - molto divertente e scanzonata, che prendeva in giro gli ufficiali tromboni ma che non aveva capito il senso profondo degli eventi e dello scontro culturale che essi esprimevano. Poi riascoltai la storia in qualche spettacolo di Giovanna Marini in versione forse un po' romanzata ma con sottolineatura molto efficace, e una rappresentazione quasi visiva, del contrasto di classe tra le "contesse" e gli ufficiali di cui sopra da una parte e i parenti proletari di qualche cantante del nuovo canzoniere. Poi finalmente a Piadena, con il Diario, ho trovato la documentazione, per così dire, autentica. Ed è stata Giovanna Marini a presentare, insieme all'autore, la ristampa del Diario, riprendendo anche temi affrontati il giorno prima al convegno sui cinquant'anni del Nuovo Canzoniere. E la Marini in più di un intervento - condito ovviamente da canzoni - ha sottolineato l'importanza e l'attualità di quella esperienza e dei semi che essa ha gettato, semi i cui frutti si vedono oggi e che possono ulteriormente aiutare a far crescere nuove idee, nuove, aggregazioni, nuovi movimenti. E c'è dell'altro: si parla molto oggi in Italia di storia orale. E - bene o male - si fa ricerca in tal senso. Ma questo campo disciplinare - ha detto giustamente Sandro Portelli - non avrebbe raggiunto il livello e l'importanza che ha senza l'esperienza del Nuovo Canzoniere. Compreso - aggiungo io - il lavoro di quelli di Piadena.
Ma perché fu importante la nascita del Nuovo Canzoniere e perché lo scandalo di "Bella ciao"? A rifletterci la rabbiosa reazione degli ufficiali e delle signore era più che legittima dal loro punto di vista. E non solo e non tanto per gli specifici contenuti "estremisti" - o poco rispettosi delle gerarchie militari - di questa o quella canzone popolare. Ma soprattutto perché lo spettacolo - e il lavoro di ricerca che era stato alla sua base - erano riusciti a dar voce autonoma a espressioni della cultura delle classi subalterne, delle classi alle quali non doveva essere permesso farsi sentire. In questo lavoro era stato di aiutato paradossalmente il ricorso alle allora nuove tecnologie. "Elogio del magnetofono" era il titolo di un saggio più volte citato al convegno. E fondamentale è stato il ruolo di questo strumento per superare l'intermediazione dello studioso o del militante istruito (e perciò capace di trascrivere) borghesi, facendo così ascoltare la viva voce della gente, dei paisan appunto. «Non sono venuta fin qui per sentire cantare la mia serva» avrebbe detto, seconda la leggenda, una signora a Spoleto. E il punto era proprio quello: l'importanza e la bellezza delle canzoni, raccolte. cantate e recitate con cura filologica stava proprio nel fatto che erano davvero i canti di denuncia di dolore, di amore e di speranza della serva e soprattutto degli operai e dei contadini.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it