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Università, i successi di cui non ci siamo accorti

BEVILACQUA PIERO, D'ORSI ANGELO,

Un gruppo di docenti e studiosi, sul manifesto del 29 febbraio, rimprovera a noi - autori di un appello su L'Università che vogliamo, apparso sempre su questo giornale il 24 gennaio - di avere nostalgia della vecchia Università e non poche inesattezze. Secondo i firmatari non è vero che in Europa gli atenei sarebbero sottoposti a compiti organizzativi mutevoli e sempre più serrati. Questo sarebbe solo il caso dell'Italia. Gli autori possono cambiare idea dando un occhiata a ciò che accade, ad esempio, nel Regno Unito (M. Bailey e D.Freedman, a cura di, The Assault on Universities, Pluto Press, 2011). Ciò che ad essi sfugge, infatti, è il carattere di trasformazione sistemica oggi in atto nelle Università, che devono adattarsi al modello del New Public Management, assumere cioè le vesti di impresa secondo le tendenze da tempo in atto in Usa (si veda D.Bok, Universities in the Marketplace, Princeton University Press, 2005), e questo porta i docenti a dover assolvere sempre più numerose incombenze e compiti organizzativi.
La rivendicazione che noi facciamo di una maggiore libertà da impegni burocratici crescenti nasce ovviamente dalla preoccupazione di vedere ridotto il tempo che i docenti dedicano alla ricerca, e per quel che accadrà alla qualità dell'insegnamento. Non è certo ispirata a rivendicare il disimpegno e l' "imboscamento" nelle professioni di tanti docenti che stanno, come si dice, "nel mercato". Pratica di cui non sentiamo alcuna nostalgia. I sottoscritti, peraltro, non hanno mai avuto professioni private da gestire e posseggono curricula scientifici e popolarità fra gli studenti che li pongono al di sopra di ogni sospetto.
Gli autori dell'articolo esaltano i risultati della riforma cosiddetta del 3+2, perché avrebbe accresciuto il numero dei laureati, diminuito i casi di abbandono, allargato la base sociale di provenienza degli studenti, coinvolgendo anche le famiglie operaie. Utilizzando la stessa fonte dei nostri critici, il rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli (I nuovi laureati, Laterza 2012, d'ora in poi citato come FGA), noi perveniamo a risultati meno ottimistici, pur non tenendo conto dei danni alla qualità dell'insegnamento che quella riforma ha prodotto. È vero che il numero degli iscritti e dei nuovi laureati è aumentato, ma questo, nei primi anni di realizzazione della riforma, è stato un risultato statisticamente "drogato", mentre da alcuni anni si è del tutto arrestato, per incominciare a retrocedere. In quel numero, infatti sono confluiti i cosiddetti studenti "ibridi" come li chiama il rapporto FGA, vale a dire tutti gli studenti fuori corso e molti iscritti al vecchio ordinamento che hanno visto nella laurea triennale una vantaggiosa opportunità per conseguire la laurea. Oggi la «relativa maggiore apertura sociale nei percorsi triennali...si accompagna, però, ad abbandoni ancora elevati» (p.37). Non solo, il fatto è che i nuovi laureati si arrestano sempre più nei confini del triennio, dal momento che le lauree magistrali e a ciclo unico mostrano «una selezione sociale decisamente forte». Dunque, i figli degli operai che accedono all'Università sono sì aumentati, passando dal 19,9% al 25%, ma per conseguire una laurea di serie B. Oltre non riescono ad andare. E tali modesti risultati sono stati conseguiti a prezzo di un abbassamento culturale di insegnamenti ed esami assolutamente senza precedenti. Questi dati, d'altra parte, andrebbero letti entro una più ampia visione sociale dei problemi. Un tempo l'ambizione riformatrice della sinistra italiana era di fare accedere anche i figli degli operai ai saperi dell'alta formazione, mettendoli nella condizione materiale di giungervi. Non si pensava certo il contrario, di rendere cioè popolari i saperi per adeguarli alla modestia culturale dei loro fruitori. Oggi le cose sono profondamente mutate. Poiché nelle nostre Università la durata dei percorsi era lunga, la dispersione e gli abbandoni elevati, dove andava trovata la causa di tanti sprechi e fallimenti? Ovviamente negli ordinamenti universitari, nei curricula troppo lunghi e severi, nella vecchiaia delle nostre istituzioni. Eppure queste istituzioni sono state una parte fondamentale della modernizzazione italiana della seconda metà del Novecento. Come avrebbe potuto un paese come il nostro, uscito da una guerra rovinosa, privo di materie prime fondamentali, diventare uno dei maggiori stati industriali del mondo se le Università non avessero fornito i tecnici, i manager, i quadri dirigenti, gli intellettuali necessari alla bisogna?Li abbiamo importati dall'estero? E come sarebbe stato possibile il successo - universalmente riconosciuto - dei nostri laureati negli altri paesi, che ancora oggi si segnalano in tutte le discipline? Ma allora perché tanti studenti hanno fallito? Qui sta un punto che non ha minimamente sfiorato i riformatori di tutti i governi e che non sfiora oggi neppure i nostri critici. Gli studenti che hanno fallito provenivano per lo più da condizioni sociali e culturali che costituiscono un tratto speciale della situazione italiana. Chi ricorda i dati sull'analfabetismo di massa denunciati ripetutamente da Tullio De Mauro? Questo significa che un numero enorme di giovani non vedono mai un libro o un giornale in casa. E questi sono "punti di partenza" che pesano! Chi si ricorda delle drammatiche divaricazioni delle condizioni scolastiche tra Nord e Sud e anche all'interno delle stesse due aree? A Roma basta qualche chilometro di distanza per avere scuole e percorsi scolastici eccellenti accanto a istituti di bassa qualità, quando non degradati. Perdura, insomma, nella società italiana una netta frattura di classe dei percorsi formativi scolastici, che poi si traduce nei successi e nei fallimenti degli studi universitari.
È a valle che i governi avrebbero dovuto soprattutto intervenire, non trasformando l'Università in un caotico Liceo, dove si fa commercio di crediti. Capisco che questo invocato è un compito impegnativo, che ha a che fare con le strutture di classe e di dominio della società italiana. Obiettivo oggi troppo ambizioso per una sinistra impegnata in cose più importanti. Ma si poteva comunque fare qualcosa anche a monte, senza impegnarsi in conflitti ardimentosi, vale a dire al momento dell'ingresso degli studenti svantaggiati nell' Università. Ad esempio, con un buon sistema di tutoraggio e con il sostegno di borse di studio. Ebbene, proprio il rapporto FGA ci informa impietosamente che in Italia gli studenti beneficiari di una borsa di studio sono il 10% del totale, di fronte a oltre il 30% di paesi come la Francia e la Germania. Non solo: mentre la media di risorse spese in Italia per le borse era di 300 milioni l'anno (oggi ulteriormente decurtata), in Germania e in Francia sono «un miliardo e 400 milioni» (p.38).
Gli autori dell'articolo si dicono sconcertati per «il disprezzo che alcuni intellettuali hanno per la funzione occupazionale» degli studi universitari. C'è in questa considerazione una incomprensione rivelatrice di due diversi orizzonti culturali e teorici, di due diverse letture della società contemporanea. Intanto, nessun disprezzo. Nell'Appello consigliamo l'istituzione delle lauree brevi per gli atenei che li ritengano opportuni. Ci sono nuove professioni - ad esempio in ambito biomedico - che hanno bisogno di percorsi specifici, a meta strada tra medicina, fisica, biologia, ecc. Ma il nodo del disaccordo è ben altro: è il rapporto tra mercato del lavoro e gli studi superiori. Noi crediamo che tutto il sistema universitario dell'età contemporanea, così come si è venuto configurando dall'800 in avanti, abbia ubbidito alle richieste del mercato del lavoro capitalistico. Per quale ragione sarebbero nate le Facoltà di Chimica, di Ingegneria, di Botanica, ecc.? Naturalmente, in passato la sfera della produzione privata e quella degli studi godevano di una marcata autonomia, «davano l'impressione di tenersi a reciproca distanza», come dice Zygmunt Bauman. Ma queste vecchie Università, entro società e Stati infinitamente più poveri di quelli attuali, si permettevano il lusso di tenere aperti corsi di epigrafia latina, etruscologia, lingue dell'antico Oriente, ecc. Oggi, la pressione esercitata sull'Università per rispondere alle richieste del mercato del lavoro, rende inconcepibili simili "sprechi". Che lavoro troveranno i giovani che si laureano in simili discipline? Quello che i nostri interlocutori non scorgono è l'enorme pressione culturale che il capitalismo va esercitando, in forme diverse da paese a paese, sulle strutture della formazione. Oggi sta riducendo gli spazi della sovranità degli Stati, come potrebbe uscirne indenne l'Università? Noi pensiamo, al contrario, che i saperi impartiti nelle Università non debbano piegarsi ai bisogni congiunturali del capitale, ma debbano seguire innanzi tutto i progressi scientifici delle varie discipline al più alto livello. Rendere oggi più facile la laurea in ingegneria di un giovane, per impiegarlo più prontamente nell'apparato produttivo, sfoltendo tutti gli aspetti generali e fondativi della disciplina, significa condannarlo a una rapida obsolescenza delle sue competenze. La tecnologia cambia vorticosamente e bisogna dotare i nostri giovani di saperi generali, di attitudine critica, in grado di attrezzarli a operare nel flusso continuo delle innovazioni.
Noi, infatti, non crediamo che l'Università debba servire "per competere" e "per crescere", come suona la vuota retorica neoliberista. Al contrario, pensiamo che gli alti studi debbano essere la componente fondamentale di un Paese che progetta un nuovo modello di società, fondato sull'uguaglianza sociale, la solidarietà e la cooperazione, l'espansione della democrazia, il rispetto dell'ambiente e un mutamento radicale dell'attuale paradigma di accumulazione capitalistica.

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