Il nome di Wole Soyinka è di recente ritornato agli onori della cronaca, anche italiana, per le minacce da lui ricevute da parte della setta islamica Boko Haram, ma anche, come hanno suggerito i rari articoli di approfondimento, per l'ombra del rischio tangibile di una nuova guerra civile in Nigeria. Gli appelli di Soyinka a stringere il cerchio intorno ai ribelli fondamentalisti prima che sia troppo tardi seguono i tanti che, molto prima di questi mesi infausti, il premio Nobel aveva dedicato ora all'efferatezza del regime di Sani Abacha, ora, alle porte del conflitto biafrano, al rischio che le tensioni etniche potessero tradursi in un bagno di sangue per i popoli della Nigeria. Il paese - lo sanno bene i lettori del manifesto, informati puntualmente, a suo tempo, del processo farsa a carico di Ken Saro-Wiwa, e ora delle complesse dinamiche che sottendono ai conflitti recenti sia nel nord sia nell'area del Delta del Niger - è fra i più travagliati dell'Africa occidentale, e Soyinka ne è di fatto divenuto la voce profetica, il punto di contatto fra le realtà locali e quella dimensione internazionale che il personaggio ha acquisito (anche ma non solo) con la vittoria del Nobel.
Fra il Soyinka primo-autore-africano-a-vincere-il-nobel e il Soyinka attivista, periodicamente perseguitato dai regimi del suo paese come dalle parti in causa nei ciclici conflitti interni, c'è però una personalità complessa e sfaccettata: il drammaturgo che ha reinterpretato nel proprio teatro il retaggio tradizionale senza dimenticare l'eredità della letteratura europea; il romanziere della cultura yoruba e delle sfide della Nigeria postcoloniale; il poeta che ha dedicato i propri versi a Mandela e Saro-Wiwa, come ad Amleto, Gulliver e Ulisse, il saggista che ha tradotto la propria poetica nel fondamentale Mito e letteratura (1995). Una molteplicità di interessi che si è tradotta, in quest'ultimo decennio, nell'affresco politico di King Baabu (2001) - satira dei regimi africani che è stata accostata, fra le altre cose, all'Ubu re di Jarry -, nei versi di Samarkand and Other Markets I Have Known (2002), nell'autobiografia You Must Set Forth at Dawn (2006).
In occasione della sua imminente presenza al Dedica Festival di Pordenone, e in concomitanza con il ritorno nelle librerie dello splendido romanzo autobiografico Aké. Gli anni dell'infanzia (Jaca Book, traduzione di Carla Muschio, prefazione di Mario Baudino, pp. 336, euro 18), lo abbiamo raggiunto telefonicamente per discutere con lui delle sue ultime pubblicazioni e del suo pensiero sugli scenari geopolitici recenti.
Prendendo spunto dalla sua presenza alla rassegna Dedica di Pordenone, e anche dall'ampio spazio che all'Italia verrà nell'ambito del prossimo Black Heritage Festival di Lagos, previsto in aprile, quale ritiene sia oggi l'aspetto più rilevante nelle attuali relazioni fra il nostro paese e l'Africa, e la sua opera in particolare?
Il mio rapporto con l'Italia è senza dubbio stretto, non soltanto in virtù delle mie varie visite, ma per l'esistenza di elementi comuni fra la cultura italiana e quella da cui provengo. Il primo esempio che mi viene in mente è il modo di relazionarsi della società italiana alla famiglia, sicuramente più vicino di molti altri paesi europei a quanto succede nelle società africane: quello che io chiamo il temperamento sociale è insomma piuttosto simile. Senza contare che l'Italia è virtualmente la porta di ingresso per l'Europa, il che è evidente, naturalmente, nelle proporzioni dell'immigrazione che da qui passano verso il continente.
Assistendo a rappresentazioni della sua opera in Italia, per esempio alla prima di From Zia, with Love a Siena, nel 1992, ha notato differenze nell'atteggiamento del pubblico rispetto a quanto accade in America o in Nigeria ? Il dramma è stato, secondo lei, diversamente recepito?
Prima di tutto vorrei notare che i miei drammi non sono rappresentati molto spesso in Italia: ci sono state solo un paio di produzioni e piuttosto piccole, mentre in Europa, nel mondo anglofono, o anche in Francia, i miei drammi vanno in scena con maggiore frequenza. Al tempo stesso, per quanto riguarda la cultura umanistica in generale, l'accademia italiana sembra molto più interessata di altre alla letteratura africana. Quasi quasi, mi azzarderei a dire che ci sono molti più dipartimenti e istituzioni che si occupano di letteratura africana nelle università italiane di quanto accada negli Stati Uniti. Forse è un'esagerazione, che si basa tuttavia sulla quantità di richieste che ricevo da parte dei dottorandi italiani o da occasionali sociologi interessati al mio lavoro, ben più numerose di quante io non ne riceva in America.
Secondo lei, allora, qual è il motivo per cui i suoi drammi sono meno rappresentati in Italia che all'estero?
Per la verità non ne ho idea. Posso soltanto dire che la cosa mi sorprende, soprattutto perché, in termini di teatro tradizionale, ad esempio, la somiglianza fra una forma come la commedia dell'arte italiana e le varie forme teatrali nella cultura da cui provengo è notevole. E quindi mi pare che questo dovrebbe essere un incentivo per rappresentare il teatro africano, piuttosto che il contrario.
Accostandoci maggiormente al suo lavoro, nel 2005 sono stati pubblicati due dei suoi primi drammi, The Invention (1959) e The Detainee (1965). Come mai una uscita così tardiva?
Per quanto riguarda la pubblicazione, non si è trattato di un disegno premeditato. Semplicemente, ho ricevuto la lettera di una studiosa in Sudafrica, le cui ricerche, chissà come, l'avevano portata ai miei tempi al Royal Court Theatre di Londra, dove aveva scoperto questo mio primo dramma, The Invention, decidendo poi di ripubblicarlo. Insomma, è quello che accade sempre nella ricerca su un autore o un artista: viene fuori un brano dimenticato, una poesia rimasta nascosta in un cassetto, e si decide di pubblicarli.
Ma si riconosce ancora in questi suoi primi lavori? Trova che il legame fra queste prime opere e la sua ultima produzione sia molto forte?
Non direi, non in modo diretto, per lo meno. Di solito, dopo che ho terminato un lavoro, a meno che non venga trasmesso alla radio, e quindi sia costretto a confrontarmici continuamente, cerco di andare avanti con qualche altra cosa. Nel caso di The Invention, però, la situazione è un po' differente, perché quel testo è legato al periodo dell'apartheid, che ha avuto grandissime ripercussioni in tutto il mondo e che mi ha ossessionato fin dalla mia prima presa di coscienza del razzismo, per cui quell'opera ha mantenuto per me un'eco straordinaria. Diverso il caso di un dramma come The Detainee: temi, come quello del prigioniero di coscienza o dei rischi politici sono ancora all'ordine del giorno nella mia produzione, nonché attualissimi per quanto riguarda la storia contemporanea del continente africano.
Nel 2001, dopo l'esilio cui l'aveva costretto il regime di Sani Abacha, lei ha rappresentato a Lagos il suo dramma più recente, King Baabu. Immagino che debba essere stato scioccante per lei tornare a lavorare nel suo paese...
No, non direi che è stato scioccante. Dovrebbe essere la norma poter lavorare nel proprio paese. Per me si è trattato semplicemente della continuazione di quanto stavo facendo in precedenza, e dopo quell'interruzione sono semplicemente rientrato a pieno ritmo nelle mie usuali occupazioni.
Fra le sue ultime pubblicazioni c'è la raccolta di lezioni tenute nell'aprile 2009 all'università di Dar es Salaam, nel corso della Julius Nyerere Intellectual Festival Week, New Imperialisms (2010). In che modo il termine «imperialismo» è ancora attuale e quale ruolo hanno gli autori, e in particolare quelli africani, in questo contesto?
L'imperialismo appartiene al passato e tuttavia, al tempo stesso, non è così, perché quello a cui stiamo assistendo oggi è un nuovo riassetto di quel concetto, quella realtà di imperialismo, sulla base di nuovi parametri. Ciò che abbiamo attualmente è una battaglia nei confronti di un imperialismo religioso, che non solo sta dilaniando diverse regioni della Nigeria, ma è anche al primo posto nelle emergenze mondiali. Abbiamo un nebuloso concetto di impero promosso da una serie di politici che usano la religione per le proprie mire e sono disposti a diffondere questo impero mettendo ogni cosa a ferro e fuoco, se necessario, in contrapposizione agli imperativi secolari della maggioranza del mondo odierno. Persino quelle nazioni che seguono una qualche forma di teocrazia sono di solito sagge a sufficienza da sapere che alla base di tutto deve esserci un imperativo secolare in grado di porsi al di sopra di ogni tendenza religiosa. Ciò che sta accadendo oggi con le religioni non è altro che il vecchio, anacronistico concetto di impero, basato ora, però, sulla religione. Quindi quell'atteggiamento nei confronti del mondo, quel senso che le cose siano proprie per ordine divino non sono altro, nella mia analisi, che un'altra faccia di quello che è l'istinto imperialista - giacché tutto ciò si accompagna a una volontà di controllo, di dominio politico, di espansionismo. Se poi lei mi chiede qual è il ruolo degli autori in tutto questo - un dilemma ricorrente - direi che il ruolo dell'autore non è diverso da quello del normale cittadino che tiene in conto la libertà - la libertà di scelta, delle varie espressioni spirituali dell'esistenza - ed è pronto a difendere quella libertà, quella volontà umana, con i mezzi, nel suo caso, della letteratura. Questa è l'unica distinzione fra lo scrittore professionista, io credo, e altri cittadini: che siano contadini, architetti, pittori, insegnanti, essi contestano (con ciò assumendo un ruolo) quell'asse che ho descritto come l'asse del potere e della libertà. L'unica differenza è che lo scrittore articola tutto questo in un mestiere.
La sua analisi in The Credo of Being and Nothingness (1991) può essere chiamata in causa in questo discorso, visto che lei, commentando quello che lei definisce l'istinto imperialista delle due principali religioni monoteiste, il Cristianesimo e l'Islam, suggerisce in quel testo che le religioni africane abbiano invece un carattere inerentemente pacifico. Alla luce dei recenti eventi nigeriani, che sono oggi all'ordine del giorno, direbbe che questa riflessione è ancora attuale? Possono le religioni autoctone avere un ruolo pacificatore?
Beh, potrebbero e dovrebbero, ma non credo che accadrà. Non accadrà perché l'ascendente di questi due giganti della religione, Cristianesimo e Islam, è troppo potente, troppo fortemente strutturato: un potere che a questi due credi viene assicurato da una serie di strutture e di risorse statali - siano esse lo stato vero e proprio (come nel caso degli stati teocratici o sedicenti tali) oppure dei «semi-stati», che sono transnazionali ed esercitano quasi lo stesso potere degli stati geograficamente intesi. Ora, rispetto al peso dell'Islam e del Cristianesimo, alla loro solidità strutturale, è assai improbabile che le religioni africane, che pure avrebbero moltissimo da offrire, possano divenire un habitat utile. D'altra parte, la natura stessa delle religioni africane, che nei fatti previene o riduce ogni possibilità di influenza, risiede proprio nel loro rifiuto di ogni forma di conquista, giacché non perseguono alcun tipo di potere secolare. Esse si accontentano di esistere come alternative, visioni del mondo al servizio di coloro che ricercano in queste religioni la saggezza e un orientamento di vita. Per esempio, nella religione degli Orisha (semidivinità yoruba, ndr) non si trova alcun equivalente «papale» della struttura gerarchica delle altre religioni, o dell'Islam con i suoi onnipotenti e onnipresenti ayatollah. Le religioni africane sono, per così dire, molto tranquille e soprattutto molto pratiche. Ed è un peccato che non si tenga conto dei loro moniti, visto che hanno invece da impartire fondamentali lezioni di umanesimo.
Come ha deciso di reagire alle minacce personali che l'hanno colpita? Pensa di trovare una risposta adeguata scrivendo magari un testo, una riflessione su questo argomento?
No, per il momento quello che mi preme di più è mettere in grado nuovi scrittori e registi di portare in scena le loro opere, su questo mi sto impegnando. E in generale cerco di non tenere queste minacce in gran conto, e di continuare con il mio lavoro usuale.
Lei ha, con altri, sollecitato le Nazioni Unite perché prendano posizione rispetto ad Assad e a quel che sta accadendo in Siria. Ma se prendiamo in esame la situazione libica, diverse voci critiche si sono levate in merito all'intervento Nato nel paese, sostenendo che si è trattato di una operazione neo-coloniale su territorio africano. Lei concorda con questa analisi? E non potrebbe accadere lo stesso con la Siria?
Io ho sollecitato quell'intervento perché, come altri, credo nel bisogno di libertà e indipendenza e nella necessità di scardinare quello che, come dicevo prima, è un asse di potere. In Libia, come in Siria, c'era una richiesta di libertà che non poteva essere ignorata. Non credo sia il caso di impiegare in questa sede il termine «neo-coloniale», che è inappropriato: che cosa vogliamo dire, allora, del colonialismo interno? Dell'abuso di potere di dittatori, come Assad, nei confronti delle loro popolazioni? Anche questa è una forma di colonialismo, e credo che le nazioni che possono intervenire a evitare che questo accada debbano farlo. Si possono avere dubbi, si può discutere sulla tipologia di intervento, ma non sull'intervento in sé, che deve affiancare la popolazione siriana, come prima quella libica, nella sua fondamentale richiesta di libertà.
E crede che se la Siria, come tassello ultimo della primavera araba, riuscirà a trovare una sua dimensione pacifica, a uscire dalla crisi attuale, questo avrà un effetto domino sui paesi dell'area sub-sahariana?
Io non ho dubbi che la Siria uscirà prima o poi dalla crisi; è solo una questione di tempo, il potere di Assad è obsoleto e non potrà che cadere, a breve o lungo termine, è un potere ormai condannato alla sua fine. Ma non credo che la Siria in particolare, o la primavera araba, possano determinare un effetto domino: perché nei paesi africani a sud del Sahara questa richiesta di libertà esiste da molto prima, anche se ha preso delle strade diverse e si esprime in maniera differente. Comune a tutti è una radicata richiesta di libertà; ma quello che sta succedendo in Siria e altrove può solo rafforzare, non determinare, le richieste di autorità più giuste in tutta l'Africa.