The Thing: ma il riferimento non è a John Carpenter. «La cosa» di Mats Gustafsson, sax, Ingebrigt Haker Flaten, contrabbasso, e Paal Nilssen-Love, batteria, non è un alieno in grado di assumere identità altrui, come troppo jazz di oggi cerca di fare. Il trio scandinavo (Gustafsson svedese, Haker Flaten e Nilssen-Love norvegesi) fa tesoro di molte esperienze, non solo jazzistiche, ma per nutrire un'identità propria: non rigida, mutevole nelle vesti che indossa, ma forte.
Il riferimento è invece al titolo di un brano di Don Cherry, compreso in un suo Lp inciso nel '66, Where Is Brooklyn?. Nell'album di esordio, nel 2000, The Thing rileggeva diversi brani del visionario trombettista: ma è stato solo un punto di partenza. La fama di The Thing è ampiamente legata ad una free music declinata spesso con una spiccata propensione punk/hardcore: The Thing non si siede su una formula, né vive di rendita sull'appeal di un impatto energetico à la page. Eloquente da questo punto di vista l'esibizione del trio all'Auditorium Cantelli di Novara, nell'ambito di Novara Jazz Winter, dove The Thing si è presentato allargato a quintetto con il pianista spagnolo Agustí Fernández e con il trombettista Peter Evans, attivo a New York da una decina d'anni.
La musica è molto aperta, ma non nel senso di un free a briglia sciolta, o di un'improvvisazione che decolla da un canovaccio, e se è distante dal free neroamericano storico, nemmeno richiama i più tipici stilemi dell'improvvisazione «radicale» di marca europea. È piuttosto un inanellarsi di situazioni, all'insegna di un gusto piuttosto espressionista e un'idea verrebbe da dire «teatrale» della messa in scena sonora, in una sorta di drammaturgia istantanea, che gioca con registri che dall'estremo del parossismo arrivano all'altro della rarefazione. Spesso gli strumenti non suonano tutti contemporaneamente: le ampie pause che alcuni si prendono contribuiscono a creare una bella dialettica con una certa rudezza espressiva di quelli che suonano.
Impiegando sax tenore e baritono, Gustafsson è incline ad un sound parecchio strong e non disdegna il barrito, e i suoi soli sono molto materici, ma svolge un ruolo che prevede larghe soluzioni di continuità, con interventi a volte anche assai sintetici che punteggiano l'interplay con un effetto di grande atmosfera.
Nilssen-Love è perentorio, tranchant nel suo drumming, ma spesso si astiene dal suonare. Fernández (che ha fra l'altro studiato con Xenakis) ha un chiaro debito col pianismo di Cecil Taylor, ma non si sente obbligato a restituirne anche il carattere torrentizio. Haker Flaten è forse il più continuativo. Anche Evans talvolta tace, ma quando imbocca la tromba o il trombino i suoi assoli hanno qualcosa di frenetico, un po' come se una volta cominciato non riuscisse più a fermarsi, come in una coazione a suonare quasi da transe, che in una dimensione di transe tende a tirare anche chi ascolta. Dentro alla poetica di Evans rientra con coerenza anche il ricorso ad effetti sonori, soffi, schiocchi e l'utilizzo della tecnica della respirazione circolare.
Col suo virtuosismo al servizio di una notevole robustezza espressiva, più che al jazz ortodosso o a modelli free neroamericani o europei in questo contesto Evans fa pensare soprattutto a momenti della musica classica (con uno spirito barocco), e contemporanea (ricordando forse soprattutto la fantasia e la leggerezza di un certo Stockhausen): l'attività di Evans spazia dall'improvvisazione all'avant-garde alla musica accademica (un'altra occasione per ascoltarlo sarà col quartetto Mostly Other People Do The Killing a Venezia, Teatro Fondamenta Nuove, 26 febbraio). Valore dei singoli ed interplay di carattere che ha evitato di adagiarsi, mantenendo la musica su un piano rigorosamente (ma non penitenzialmente) davvero informale.