POLITICA & SOCIETÀ

Contro gli scogli, non solo metaforici

CRONACHE DEI NAUFRAGI - Lusitania, Andrea Doria, Moby Prince... quando il mare è un cimitero
DEL SETTE LUCIANO,

New York, 1948. Charlie Chaplin, seduto nel soggiorno della scrittrice Anaïs Nin, racconta del viaggio in nave che l'ha condotto all'isola di Bali. Evoca mondi riservati a pochi sia per il tempo necessario a raggiungerli, sia per i soldi che una crociera, allora, richiedeva. L'episodio è annotato in alcune pagine dei diari di Nin. A rileggerlo oggi, non sono trascorsi neppure settant'anni, sembra appartenere alla preistoria di una forma di turismo trasformato nell'ultimo ventennio in sogno possibile anche da chi ha messo da parte pochi spiccioli. Prova n'è venuta dalle tante interviste in questi giorni tragici del Concordia, che hanno mostrato croceristi ignari di martini cocktail, feste a tema, cene lussuosamente apparecchiate per chi viaggiava nei quartieri alti della nave. Ma, quando la forza del mare, la circostanza imprevedibile, l'inadeguatezza o la crudeltà dell'uomo, segnano la fine apocalittica di una crociera, allora la distanza tra le classi, sociali e turistiche, si polverizza. Le immagini e le urla di chi cercava salvezza dal Concordia, accomunavano tutti, senza distinzioni, nella lotta per sopravvivere; una lotta senza regole, stando al racconto di un passeggero che ha dichiarato di aver strappato il giubbotto salvagente a chi gli stava accanto.
La rilettura storica delle cronache dei naufragi rimanda a episodi come quello del 7 maggio del 1915, quando il lussuoso transatlantico britannico Lusitania venne affondato da un siluro di un sommergibile tedesco U20. Gran Bretagna e Germania erano in guerra, il conto dei morti, fra passeggeri ed equipaggio, raggiunse la cifra di 1.198. Sovietico era il sommergibile che il 30 gennaio del 1945 colò a picco nel Mar Baltico la nave ospedale Wilhelm Gustloff in forza alla marina tedesca. A bordo, oltre a un migliaio tra ufficiali ed equipaggio, si trovavano 373 donne delle Unità Navali Ausiliarie, 162 feriti, 4.424 rifugiati, e sui ponti centinaia di persone non identificate. L'S13 sovietico lanciò tre siluri, il mare si inghiottì oltre novemila vittime.
Ma se una guerra sottende sempre forme di abominio, anche in tempi di pace il destino delle città galleggianti ha conosciuto grandi lutti. Titanic a parte, 1.523 morti, la nostra Andrea Doria, scontrandosi il 26 luglio 1956 con un'altra nave passeggeri, la Stockholm, al largo delle coste del Massachusetts, va a picco e cancella 46 vite. La russa Admiral Nachimov, specializzata in crociere nel Mar Nero, il 31 agosto 1986, a otto miglia dal porto di Novorossijsk, entra in collisione con la Pëtr Vasëv e affonda in un attimo. Muoiono 423 persone. Transatlantici, ma anche traghetti, in servizio su rotte ordinarie che nulla dovrebbero far temere. E invece, il 10 aprile del 1991, la Moby Prince, in servizio tra Livorno e Olbia, si scontra con la petroliera Agip Abruzzo a poca distanza dal porto della città toscana. Nel rogo e tra i gas tossici, bruciano in 140. Si salva soltanto il mozzo Alessio Bertrand. L'Estonia, traghetto della compagnia Estline, affonda il 28 settembre 1994 durante un viaggio tra Tallinn e Stoccolma, con 989 persone a bordo. I superstiti sono 137.
E poi, ancora, flusso senza fine, imbarcazioni precarie e imbarcazioni di disperati. Qui, l'elenco dei naufragi si fa quasi incommensurabile. Africa, Maghreb, Estremo Oriente, Europa, sono scogli non soltanto metaforici, contro i quali continuano a infrangersi migliaia di vite e di speranze. Le somme delle colpe sono diverse, diverse sono le circostanze, diverso il numero dei morti. Ma sempre uguali sono le voci che tornano tra le cause: errore umano, imprevisto, sicurezza sacrificata al tornaconto economico, imprudenza.

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