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Omsa REVOLUTION

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MALERBA MASSIMO,

Quando a pochi giorni da Capodanno il padrone dell'Omsa, Nerino Grassi, inviava il fax di licenziamento alle 239 lavoratici dello stabilimento di Faenza nessuno avrebbe potuto immaginare che quell'atto di ordinaria arroganza avrebbe dato vita alla straordinaria mobilitazione che abbiamo visto di recente nel web ma non solo. E men che meno l'aveva previsto il management dell'azienda che, forse confidando nell'oblio natalizio e nella natura - purtroppo - rituale della vicenda, pensava di aver chiuso così il lungo processo di delocalizzazione che porterà lo storico marchio di calze ad abbandonare l'Italia per produrre in Serbia.
E in effetti, per tre giorni, solo pochi lanci di agenzia e qualche quotidiano locale avevano riesumato fugacemente una vertenza che si trascina da anni e che, solo l'anno scorso, ha avuto qualche momento di visibilità grazie alle «finestre» di Anno Zero, a qualche quotidiano (il manifesto, Liberazione e Il Fatto) e a siti come l'Isola dei cassintegrati, ostinatamente sensibili al tema. Eppure, nemmeno questi sforzi meritori erano riusciti ad impensierire la proprietà che, dopo aver incassato il colpo, ha continuato ad agire unilateralmente chiudendo ogni spazio alla trattativa con i sindacati e con le istituzioni locali e nazionali.
Del resto, cosa può mai frenare la cieca determinazione di chi ha deciso che il profitto è l'unico fattore di qualificazione delle scelte aziendali? Cosa può far cambiare idea a un imprenditore che, pur in assenza di crisi aziendale, non riconosce alcun vincolo etico o la responsabilità sociale nei confronti del territorio, delle persone e di quel bene comune qual è il made in Italy che tanto hanno contribuito alla sua fortuna? Nulla, nessuno, se non i soldi.
Ed è così che il 30 dicembre decido di sostenere questa battaglia di civiltà, che non riguarda soltanto le lavoratrici di Faenza ma il destino dell'intero tessuto produttivo del Paese come abbiamo visto con la Fiat e la Bialetti. Lo faccio con l'unico strumento di cui dispongo e che ho imparato a maneggiare nel corso di questi anni, dal No Berlusconi Day all'ultima campagna referendariia, ossia il web.
Il 30 dicembre vado a far visita a quello che sembra essere l'unico spazio web dell'Omsa aperto ai feedback del pubblico, ossia la pagina Facebook dell'azienda. Trovo una pagina morta: pochi commenti, qualche foto e un instant-poll dedicato alla qualità dei prodotti.
Il primo passo dunque è quello di attivare ciò che possiamo definire il «trattamento Ronnie», un'operazione virale che consiste nell'invitare i cittadini digitali a esprimere i loro giudizi sulla bacheca del «bersaglio», un po' come è avvenuto quando Red Ronnie, nel corso della campagna elettorale per le amministrative milanesi, entrò a gamba tesa nello scontro Pisapia-Moratti. Sulla sua bacheca, per giorni, si abbattè una pioggia di contestazioni che costrinse Ronnie a una clamorosa marcia indietro e che contribuì non poco alla vittoria dell'attuale sindaco di Milano.
Invito così i 440 mila contatti della pagina Facebook del Popolo Viola, e i 30 mila follower su Twitter, a scrivere la propria indignazione sulla bacheca dell'Omsa: in poche ore, migliaia di utenti postano commenti che hanno come comune denominatore la parola «vergogna». Lo staff dell'azienda non si aspetta una reazione così improvvisa e potente da parte dei cittadini, balbetta una replica ma non c'è niente da fare: il passaparola è partito e la Omsa sta per bruciare il suo bene più importante, la brand reputation.
E tuttavia il «trattamento Ronnie» non basta. Occorre creare un contro-brand, un titolo per quella trama collettiva che si dispiega rapidamente in rete. Il primo gennaio scrivo un post sul blog del popolo viola: «Un impegno concreto per il 2012: Mai più Omsa». Eccolo il controbrand, «Mai più Omsa», che presto diventerà un evento con 80 mila adesioni, numeri giganteschi per quella che fino a poco prima poteva essere considerata una vertenza ordinaria, come tante ce ne sono nel Paese.
Il caso Omsa viene ripreso allora da tutti i media tradizionali e per giorni occupa le pagine di giornali e siti web, impazza nei tg e nelle radio. E infine, nel giorno della Befana, si materializza nelle città con i volantinaggi davanti ai negozi della Golden Lady, società proprietaria della Omsa.
A quel punto l'azienda capisce che la campagna di boicottaggio partita dalla rete avrà effetti concreti sulle vendite e tira fuori un comunicato in cui spiega le ragioni che l'hanno indotta alla delocalizzazione: «In risposta alle vostre considerazioni - scrive Omsa - abbiamo deciso di essere trasparenti per darvi il nostro punto di vista sulla vicenda». Averli costretti a «essere trasparenti», dopo anni di manovre sotto banco e silenzi è già un grande risultato.
Il 6 gennaio il Tg3 dà notizia di un drastico calo delle vendite dei collant della Omsa. Il giorno prima era stata la stessa produttrice di calze a paventare una simile evenienza, l'aveva fatto con un post su Facebook che suonava un po' come una minaccia: «Il boicottaggio sicuramente avrà un peso importante, ma andrà anche a discapito di tutti coloro che lavorano ancora in Italia. La crisi del 2008 ci ha spinto a dover prendere delle decisioni».
Dopodomani, 12 gennaio, si terrà l'incontro decisivo per il futuro dello stabilimento di Faenza e delle 239 lavoratrici licenziate. Non sappiamo come andrà a finire il tavolo con l'azienda chiesto con forza da sindacati e istituzioni locali, dal governo nazionale e a questo punto anche dai cittadini. Ma una cosa è certa: anche nella dialettica capitale-lavoro, da oggi, entra a pieno titolo un nuovo soggetto: la Rete.
*Post Viola - blog del Popolo Viola

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