CULTURA

La condivisione che dà forma a una società di liberi e eguali

DENTRO E FUORI LA RETE - «Manifesto Telecomunista» di Dmytri Kleiner
ANTONELLI FRANCESCO,

Durante il mio corso di sociologia generale, mentre parlavo dei paradigmi della ricerca scientifica, uno studente mi ha chiesto: «se la scienza moderna si basa sul concetto di pubblicità, di condivisione delle scoperte, come si concilia questo con il fatto che le industrie utilizzano le conoscenze per fare profitto che poi rimane a loro?» Nella sua immediatezza, si tratta di una questione carica di radicalità che investe l'ambito della conoscenza in generale e che va al cuore stesso delle contraddizioni del capitalismo contemporaneo. Per lo studente in questione come lo è stato per me, una lettura stimolante è certamente il Manifesto Telecomunista di Dmytri Kleiner (ombre corte, pp. 139, euro 13). In questi anni abbiamo letto decine di «manifesti» che hanno il duplice intento di rilanciare un'alternativa forte di società e aggiornare il contenuto del Manifesto di Marx e Engels, soprattutto nell'indicazione delle nuove soggettività del conflitto. Anche in questo caso il soggetto in questione, non più esplorato nei suoi contorni ma dato ormai per consolidato, è il complesso dei lavori della conoscenza.
Dmytri, sia nel suo percorso di vita come membro del collettivo tedesco Telekomunisten - occorre leggere il testo o fare un giro sul web per cogliere tutta l'originalità di questa esperienza - che come studioso militante, si confronta direttamente con l'ambivalenza della Rete e del capitalismo cognitivo, invece di eluderlo come fanno, purtroppo, molti studiosi radicali. Come evidenziato nell'introduzione, e in linea con l'impostazione metodologica di Marx, Dmyitri coglie da una parte le opportunità e le potenzialità che la Rete rende possibili in termini di condivisione e moltiplicazione collaborativa della conoscenza. Dall'altra, ad essere evidenziato è il costante movimento di appropriazione di questa ricchezza, naturalmente comune e gratuita, trasformata in merce dalle grandi industrie culturali e informatiche contemporanee - come ha fatto sistematicamente, ad esempio, Apple: lo sviluppo delle forze produttive è bloccato dai rapporti di produzione, che oggi assumono la fondamentale forma giuridica del copyright. La recinzione giuridica dell'immateriale (progressiva espropriazione dei beni e spazi pubblici, o commons) è ciò che separa, innaturalmente, il produttore dal consumatore di software, di prodotti culturali e così via, limitando la possibilità di generazione di nuove conoscenze, ricchezze anche materiali e, soprattutto, la loro più equa distribuzione in un mondo che, al contrario, diventa sempre più ineguale.
Dal riconoscimento della schizofrenia del lavoratore della conoscenza, nasce l'originalità e la forza politica della proposta di Dmytri e la sua rottura con l'idea stessa di rivoluzione o anche di riformismo, condivisa da una parte significativa dei movimenti socialisti e comunisti del Novecento: per superare questa situazione occorre partire dal basso e non più dall'alto, dalla sfera materiale e non dallo Stato. Sviluppando le forme alternative di organizzazione della produzione dell'immateriale - come le comuni alla Telekomunisten - in modo che, più aderenti alla logica e alle potenzialità della Rete, essi risultino non solo eque socialmente ma superiori economicamente. In modo da realizzare, alla fine del movimento, una rivoluzione del sistema che nasce però dall'interno del sistema stesso, nell'esigenza di ricomposizione dell'alienazione subita dal lavoratore della conoscenza contemporaneo.
Dmytri offre un interessante declinazione del riformismo radicale: se la classe operaia differiva dalla borghesia come attore portatore, innanzitutto sul piano economico, di un superiore modello di produzione, se non attraverso la mediazione della politica, il lavoratore della conoscenza è esattamente un simile soggetto che il rivoluzionario e intellettuale di Treviri non aveva ovviamente mai potuto conoscere. Certamente questa superiorità economica della comune fondata sulla logica pear to pear - e dunque, solo parzialmente riconducibile alla tradizione dell'autogestione o, anche, del movimento cooperativo, se non sul piano delle finalità generali - è tutta da dimostrare. Come tutta da dimostrare è, la fondatezza della sua analisi della struttura di classe contemporanea: la categoria del lavoratore della conoscenza, infatti, presenta una profonda stratificazione interna e non è monolitica come pensa Dmytri.
Lo sceneggiatore di serie come Lost non guadagna come e non ha gli stessi interessi di un precario dell'università italiana. Che sul piano politico prevalga poi la comune condizione di creatori di simboli e del loro utilizzo in un processo politico-economico, come la creazione delle comuni, è un puro abbaglio volontaristico. Che si trasmette alla critica che Dmytri fa delle forme alternative al copyright, come il copyleft (puoi utilizzare liberamente un bene culturale purché il nuovo prodotto derivato porti con sé la medesima libertà) o i creative commons (il creatore del prodotto può scegliere quali limitazioni devono essere applicate al suo utilizzo). Il punto, tutto politico, metro su cui deve basarsi in ultima analisi la valutazione di un «manifesto», è il riconoscimento flessibile della funzione autoriale, garantita in entrambi i regimi alternativi, che Dmytri - sebbene sul punto l'autore sia molto ambiguo - sembrerebbe voler dissolvere: non parliamo tanto del riconoscimento economico quanto di quello sociale. Se non si vuol cadere nell'utopia, un punto del genere non può essere liquidato dall'idea che tutti i lavoratori della conoscenza siano riassorbiti da un'unica figura, il prosumer, e da un'unica, pura, volontà collettiva di creazione. Al contrario, occorre fare i conti, anche per un miglioramento della critica al copyright, proprio con il portato individualistico dei lavoratori della conoscenza e con le loro articolazioni interne. In un serrato confronto con quella ambivalenza della Rete, da cui Dmytri stesso parte.

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