VISIONI

Metti Battisti e Mogol stretti in una 500 gialla

DISCHI - Riletta l'Italia del pop fra i 60 e 70
DEL SETTE LUCIANO,

La strada delle cover anni '60 e '70, in special modo di quelle che appartengono al patrimonio musicale italiano, è lastricata di pessime intenzioni. Esempio eloquente è il Circo Barnum televisivo di Ti lascio una canzone, dove innocenti (?) ragazzini propongono rivisitazioni smielate senza nulla sapere di quel che cantano. E si potrebbe continuare con vecchie glorie riesumate in patetici terzetti, band alle prese con musiche e parole più grandi di loro non soltanto in senso anagrafico, dj distruttori di brani quali Geordie a firma di Fabrizio De Andrè. Sarebbe, dunque, atteggiamento giustificato, provare diffidenza verso un album di fresca uscita, NuvoleIncanto, la 500 gialla (Felmay, Egea Distribution), che si cimenta con quattordici brani presi dal repertorio più glorioso dell'Italia canora tra il 1963 e il 1976.
I rischi erano altissimi: confrontarsi con lo spartito di E la pioggia che va, La canzone di Marinella, Non è Francesca, Dio è morto, 29 settembre. Vale a dire, Rokes, Faber, Battisti, Equipe 84, Guccini, per citare solo alcuni nomi illustri. Il timore dell'ennesima celebrazione con lapide mal deposta alla memoria, inizia a dissiparsi quando si apprende che il disco nasce dalla trasposizione dello spettacolo NuvoleIncanto, Prodotto dal cantante e chitarrista Fabrizio Cotto, è il racconto dei nostri Sixties e Seventies, per suoni, immagini e parole, dentro molto di ciò che quel ventennio ha creato, comportato, distrutto e provato a costruire. Artefici del cd, insieme a Cotto, sono Luigi Venegoni, fondatore dello storico gruppo Arti & Mestieri; il chitarrista Beppe Gambetta; il bluesman Paolo Bonfanti, Roberto Tiranti, voce «metallica» dei Labyrinth; Fabio Rinaudo, dei Birkin Tree; il sax di Francesco Bearzatti, il cantautore Eugenio Finardi. Su queste premesse, l'ascolto di un'operazione tutta torinese (la cover mostra una 500 gialla parcheggiata in sfida anarchica sotto il monumento equestre di piazza San Carlo, salotto borghese della capitale sabauda) si fa più disponibile. Di traccia in traccia, poi, la convinzione cresce. Rock schitarrato con distorsore e pedale, jazz di velluto, sonorità su cui spira il vento folk dell'Irlanda, fusion di giusta misura, fisarmoniche da tango, chitarre acustiche, conferiscono a ciascun pezzo una propria identità che non tradisce le origini, ma conferisce loro nuova linfa.
In Era d'estate di Endrigo, l'anima melodica è scandita dai ritmi secchi di una batteria che mai manca di rispetto; Dio è morto (Nomadi e Guccini), introdotta e trascinata dalla fisarmonica, si rifà allo spirito da ballata del pezzo, accrescendone la forza delle origini; Non è Francesca (Battisti e Mogol), gioca sul soffio di un flauto e sulla sei corde elettrica di Venegoni, in un nuovo equilibrio che a Lucio sarebbe piaciuto. Esemplare per citazione filologica è Questo vecchio pazzo mondo: dall'insulso testo italiano, conflitto d'amore e d'amicizia tra due uomini per la stessa donna, si passa alla versione originale inglese, Eve of Destruction, cantata da Barry Mc Guire, che raccontava un mondo di rivoluzioni pronte ad esplodere. La Musica ribelle e La radio, bandiere dell'antagonismo di allora, vengono riproposti da chi allora li firmò: Eugenio Finardi, voce che, con il tempo, ha acquistato notevole valore. L'ultima traccia è un omaggio a Tenco, con Vedrai vedrai. Il sax etereo di Bearzatti accompagna le parole di rimpianto e disperazione nel brano più bello tra quelli scritti dal cantautore genovese. Rimpianto e disperazione che da quel lontanissimo '65 divengono storia di oggi, e dei tempi senza speranze che stiamo vivendo.

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