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Perché a Lampedusa non è una simmetrica guerra tra poveri

IMMIGRATI
RIVERA ANNAMARIA,

C'è un video del quotidiano La Stampa sui fatti di Lampedusa che mostra un rimpatrio collettivo di tunisini dopo la rivolta. Il breve filmato ha due sequenze che restituiscono, con grande pregnanza simbolica, il senso del trattamento riservato a coloro che l'indegno sindaco dell'isola definisce delinquenti. La prima mostra un bus, carico di migranti e diretto verso l'aeroporto: sulle fiancate, due insegne vistose di "Lampedusa accoglienza". Nella successiva si vede l'imbarco coattivo dei tunisini su un aereo delle Poste italiane: rispediti al mittente come pacchi postali dall'indirizzo inesatto, e non è una metafora.
Soffermiamoci sul primo simbolo. "Lampedusa accoglienza" è un cartello tra "Blu coop" di Agrigento e "Sisifo", consorzio palermitano di cooperative sociali, entrambi aderenti alla Lega delle Cooperative. La sequenza citata appare doppiamente sarcastica: il cartello "rosso", cui è stata affidata la gestione del Cpsa (Centro di primo soccorso e accoglienza), di fatto divenuto centro di detenzione, in quel momento è complice di un illegale rimpatrio collettivo. La parola "accoglienza", della quale esso si ammanta, suona ancor più derisoria alla luce di un altro fatto.
Secondo un testimone oculare, il fotogiornalista Alessio Genovese, uomini di "Lampedusa accoglienza" avrebbero partecipato al tentativo di linciaggio popolare dei migranti dopo il rogo del Centro, la fuga e la protesta. «Erano in prima fila a picchiare e sputare sui tunisini», racconta Genovese.
Se questo è vero, di quale "guerra fra poveri" si parla? Di quali "conflitti di prossimità"? La guerra fra poveri presuppone una certa simmetria fra i contendenti. Ora, vi sembra che dei migranti, per eccellenza individui di status inferiore, per di più in fuga disperata, esasperati dalle pessime condizioni di detenzione e dalla prospettiva del rimpatrio, abbiano lo stesso potere di certi energumeni che, armati di bastoni, li aggrediscono per difendere i profitti dell'impresa? Oppure del sindaco De Rubeis che incita al pogrom? Del gruppo di isolani che tenta di lapidarli? Della polizia che non sa far altro che caricare, peraltro spalleggiata da cittadini?
Quanto ai conflitti di prossimità, essi presuppongono, ci dice la sociologia, non solo un'oggettiva prossimità spaziale, ma anche qualche esperienza di convivenza. Mille indizi ci fanno immaginare che invece, nella percezione di buona parte dei lampedusani, i migranti e i rifugiati - che la criminale inettitudine governativa addensa nell'isola oltre ogni misura - non siano altro che ombre minacciose, fantasmi di un'alterità ostile, massa informe che si espande come magma inarrestabile: «nonpersone», per dirla alla maniera di Philip Dick, private perfino «del nudo scheletro dell'esistenza».
La testimonianza di Genovese contiene una frase di splendida semplicità. Quando i tunisini in fuga si sono rifugiati nel piazzale dinanzi al porto commerciale per trascorrere la notte, «nessuno gli ha portato da mangiare e da bere». Forse sarebbe bastato questo gesto - che un'etica compassionevole riserva anche agli animali non umani - per attenuare la paura reciproca, sciogliere la tensione, cercare una soluzione, almeno temporanea, del conflitto.
Non sottovalutiamo affatto il disagio drammatico vissuto dall'isola, vittima della politica irresponsabile di un governo da operetta. Eppure, se ci chiedessero da che parte stiamo, risponderemmo senza esitazione: dalla parte di chi si ribella a un abisso d'ingiustizia e umiliazione.

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