CULTURA

Il data record dello stivale

UNA STORIA CIFRATA
ALBERTI MANFREDI,

Le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, ormai in fase conclusiva, hanno avuto il merito di favorire la realizzazione di diversi progetti in grado di stimolare una riflessione sull'avvenire del nostro paese a partire da uno sguardo retrospettivo sui successi, i fallimenti e le contraddizioni che ne hanno caratterizzato la storia. L'Istituto Nazionale di Statistica (Istat) negli ultimi mesi ha saputo sfruttare l'opportunità offerta dalle celebrazioni, promuovendo una molteplicità di iniziative tra cui spicca l'idea di rendere disponibile online l'archivio della statistica italiana. Si tratta di una raccolta di circa 1500 serie storiche di dati, organizzati in 22 aree tematiche e in parte fruibili anche attraverso grafici dinamici particolarmente efficaci per scopi divulgativi e didattici. A questo patrimonio informativo accessibile dal web, in corso di ampliamento, si aggiungerà la pubblicazione di un nuovo Sommario di statistiche storiche 1861-2010, di prossima uscita.
Le nuove serie Istat possono diventare la base per una riflessione sulla storia dell'Italia unita, specie se affiancate dai risultati di un bel volume di sintesi sulle condizioni di vita degli italiani dall'Unità a oggi (Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall'Unità a oggi, il Mulino, pp. 495, euro 40). Mettendo a frutto le ricerche di diversi studiosi, quest'ultimo lavoro propone al lettore un quadro aggiornato delle informazioni quantitative disponibili sul benessere degli italiani, colto attraverso le sue varie espressioni: dalle condizioni di lavoro alla salute, dall'alimentazione all'istruzione, dal reddito alle disuguaglianze.
Tra i risultati più significativi delle elaborazioni statistiche raccolte nel volume emerge una nuova stima del Prodotto interno lordo (Pil) dal 1861 a oggi, anche a livello regionale. Integrando le informazioni prodotte dalla statistica ufficiale con un più ampio spettro di fonti, il volume di Vecchi permetterà di corroborare oppure di mettere in discussione interpretazioni storiografiche consolidate. È già accaduto in passato che la disponibilità di nuove informazioni quantitative abbia fatto da sprone al rinnovamento storiografico. Si pensi ad esempio alla centralità che assunse il Sommario di statistiche storiche italiane 1861-1955 curato dall'Istat per il fondamentale studio di Rosario Romeo del 1959, Risorgimento e capitalismo, e per il dibattito che ne seguì.
Una miseria secolare
Dedicando il dovuto spazio all'esplicitazione delle fonti e dei criteri utilizzati per la ricostruzione delle serie storiche, tanto la pubblicazione online dell'Istat quanto il volume di Giovanni Vecchi ci ricordano opportunamente che i numeri presentati non sono un mero rispecchiamento del reale ma il frutto di un lavoro di classificazione e misurazione - implicante spesso procedure di campionamento e stima - che presuppone precise opzioni teoriche e di metodo. L'utilizzo dei nuovi dati, pertanto, richiede la consapevolezza che le fonti statistiche sono sempre il frutto di «convenzioni di equivalenza», per usare l'espressione dello storico della statistica Alain Desrosières.
Quale quadro emerge dalla lettura incrociata delle nuove serie di dati? Guardando alle trasformazioni di lungo periodo i numeri ci raccontano la storia di un innegabile «progresso» (uso il termine pur consapevole delle innumerevoli precisazioni che richiederebbe). Rispetto all'Italia di oggi quella del 1861 era davvero lontana anni luce, quasi irriconoscibile. Centocinquant'anni fa gli abitanti della penisola erano «poveri», con un reddito pro capite equivalente a quello medio dell'Africa di oggi (espresso a prezzi costanti del 2010 era pari a 2.022 euro annui, 13 volte più basso rispetto a quello attuale). L'italiano medio poteva sperare di vivere quasi 3 volte meno di oggi, ossia poco meno di 30 anni (non molto di più di un suo antenato romano di due millenni prima). La sua statura era all'incirca di 13 centimetri inferiore all'attuale. Al momento dell'Unità l'analfabetismo era prevalente in tutto il territorio nazionale, specie fra le donne, sfiorando punte del 90% della popolazione nelle regioni meridionali. L'occupazione principale era quella agricola, e coinvolgeva mediamente il 70 per cento degli italiani attivi (oggi gli occupati in agricoltura sono solo il 4 per cento).
Dopo appena centocinquant'anni, l'Italia appare oggi profondamente mutata: si è lasciata alle spalle la plurisecolare posizione periferica nel concerto europeo, e ha raggiunto un assetto socio-economico non dissimile da quello dei paesi più ricchi del mondo. Tutti gli indicatori di benessere sono enormemente migliorati. Per di più l'Italia può vantare, nonostante le molte condivisibili critiche sul funzionamento del sistema sanitario nazionale, risultati di assoluta eccellenza, registrando non a caso una speranza di vita fra le più alte d'Europa.
L'analfabetismo è pressoché scomparso, come pure il lavoro minorile. Anche la disuguaglianza nella distribuzione del reddito si è ridotta nel corso dei centocinquant'anni di storia unitaria. A scanso di equivoci va detto che gli enormi progressi appena richiamati hanno coinvolto anche il Sud, seppure in misura minore. Dall'Unità a oggi il Mezzogiorno è cresciuto molto: il reddito è aumentato di 10 volte, sono migliorati sensibilmente tutti gli indici di benessere e in alcuni casi, come per l'alfabetizzazione o la speranza di vita alla nascita, il Sud ha di fatto eguagliato il Nord.
Omologazione continentale
Se l'analisi complessiva di questi dati, in riferimento al lungo periodo, permette di trarre un bilancio decisamente positivo del processo di unificazione e del percorso sin qui seguito dall'Italia unita, una lettura più ravvicinata delle serie storiche lascia emergere anche le contraddizioni di questo processo, a cominciare dall'accresciuto e persistente divario fra Nord e Sud. Un'analisi più dettagliata, inoltre, mostra che la crescita plurisecolare del reddito italiano non si è distribuita in modo omogeneo nel tempo ma si è concentrata soprattutto nella seconda metà del Novecento, ed è stata particolarmente sostenuta soltanto fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Infine - ed è questo l'elemento più preoccupante - i dati più recenti accreditano con sempre maggiore forza l'idea di un possibile declino dell'Italia, segnalato innanzi tutto dal ristagno della produttività e del reddito, ma anche da un deterioramento degli indicatori di equità sociale. Perché il percorso complessivamente progressivo sin qui seguito dall'Italia è stato così irregolare e contraddittorio? E perché rischia ora di subire una repentina inversione di rotta?
La lettura dei dati statistici induce a pensare che una variabile decisiva in grado di spiegare gli alti e bassi nel percorso di miglioramento delle condizioni di esistenza degli italiani sia stato l'intervento pubblico in economia. Se per i primi novant'anni postunitari l'economia italiana si è sviluppata a un tasso medio annuo dell'1 per cento circa, per gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, invece, essa è cresciuta a ritmi elevati, mediamente del 3 per cento annui. Per descrivere questo fenomeno si è parlato e si continua a parlare spesso di «miracolo», ma in realtà è sempre più chiaro che la crescita accelerata di quegli anni dipese, oltre che dalla capacità dei lavoratori e degli imprenditori italiani, soprattutto dagli strumenti di intervento statale varati durante il fascismo e aggiornati in seguito da un ceto politico consapevole della posta in gioco e capace di utilizzare i vantaggi comparati del paese per agganciare la lunga fase espansiva dell'economia mondiale.
Inversione di tendenza
Anche le nuove serie del Prodotto interno lordo regionale e i dati sulla disuguaglianza sociale danno forza all'idea che nella storia del nostro paese sia stato l'intervento pubblico a garantire non solo una sensibile crescita del reddito, ma anche contemporaneamente la riduzione del divario regionale e la realizzazione di una maggiore equità sociale. La divergenza fra Nord e Sud, dopo aver raggiunto il livello più alto nel 1951, ha conosciuto un momento di netta riduzione solo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. In quest'ultima fase il divario si ridusse rapidamente grazie a quello che nel volume di Vecchi viene chiaramente individuato come un vero e proprio deus ex machina, ossia il massiccio intervento dello Stato.
Sono state le iniziative della tanto vituperata Cassa per il Mezzogiorno, nei suoi anni migliori, insieme agli effetti positivi dell'emigrazione, a rendere possibile l'industrializzazione delle regioni meridionali e l'accorciamento delle distanze fra Nord e Sud. Quegli stessi anni furono caratterizzati da una tendenza, accresciutasi poi notevolmente negli anni Settanta, alla riduzione delle differenze sociali. La disuguaglianza misurata dall'indice di Gini raggiunse il suo livello più basso nel 1982, per poi tornare a crescere negli anni successivi. Il processo di convergenza fra Nord e Sud si interruppe invece già a partire dagli anni Settanta, determinando, seppure lentamente, un nuovo aumento del divario.
Quali conclusioni trarne? La politica economica non è di certo l'unica variabile in gioco, ma sta di fatto che nella storia dell'Italia unita il superamento dello Stato leggero, tipico del periodo liberale, e il consolidamento di un consapevole e attento intervento pubblico in economia - specie durante i primi decenni del periodo repubblicano - hanno reso possibile una crescita economica sostenuta, una forte riduzione del divario regionale e una distribuzione del reddito più egualitaria. Oggi, dopo un trentennio all'insegna dell'apologia del libero mercato e dello Stato minimo si colgono tutti gli effetti negativi dell'inversione di tendenza intervenuta, e l'Italia, insieme a tutta l'Europa, rischia di arretrare bruscamente. Quest'ultima circostanza è imputabile al caso? La storia raccontata dal Pil e dall'indice di Gini ci suggerisce il contrario.

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