Una decisione presa rapidamente, nei tempi necessari (visto che il 6 settembre il parlamento inizia l'esame della «manovra») e che naturalmente la sinistra Cgil incassa come una propria vittoria. Altrettanto naturalmente, la reazione del governo e dei sindacati «complici» non poteva che essere rabbiosa, stizzita o monotona. Difficile qualificare altrimenti - ad esempio - le parole del robot-dichiaratore Daniele Capezzone: una evidente prova di irresponsabilità» su cui «resta da capire cosa abbia da dire Bersani».
Anche l'algido giovane leader di casa Agnelli, controllore di Fiat e quant'altro collegato, si è esibito - al meeting di Cl, a Rimini - in un discorso altamente profondo: «non credo che ci dobbiamo unire a loro», perché «questo è un momento in cui dobbiamo essere tutti uniti». Non avete letto male. Anche la retorica dei luoghi comuni a un certo punto inciampa nella diversità degli interessi e si rischia l'afasia. L'unità chiesta da Elkann serve «per risolvere seriamente quel che c'è da risolvere» e quindi - par di capire - dovrebbero essere i lavoratori (e i sindacati che cercano di rappresentarne gli interessi) a «unirsi» facendosi dire cosa fare dagli industriali e dalle banche. Il sospetto - diciamolo - è che «le cose da fare» sono «concrete» se coincidono con questi interessi, «sbagliate» se soddisfano quelli altrui. Come s'è visto nella recente vicenda Fiat, del resto.
Anche il ministro addetto allo smantellamento del «welfare» e delle tutele del lavoro - Maurizio Sacconi - usa la stessa argomentazione. «Rispetto» per una grande organizzazione, ma «lo sciopero è contraddittorio con la necessità di sostenere la crescita e l'occupazione». La sua teoria è semplice: «la conflittualità appartiene al tempo in cui si produce ricchezza e i lavoratori ritengono sia mal distribuita», ma ora «bisognerebbe far valere di più la disponibilità a costruire condizioni per gli investimenti e l'occupazione». In soldoni: è il tempo di tacere e lascia fare al manovratore - oltre che all'imprenditore - senza nemmeno chiederti quale futuro ti stanno cucinando.
Difficile distinguere questa impostazione discorsiva da quella dei sindacati «concorrenti» con la Cgil. Per Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, questo sciopero è «stucchevole» e - come Capezzone - manda a chiedere a Bersani cosa ne pensa. Stabilito che gli «scioperi danneggiano i lavoratori e le imprese», Bonanni preferisce le «proteste serali o di sabato»; un po' dopolavoro, un po' serata danzante. Idem per Luigi Angeletti, pari grado nella Uil, che anbrebbe ad «esercitare una pressione sulle forze parlamentari perché apportino tutte le modifiche che abbiamo chiesto». Anche se da ogni gesto del governo si vede che si va in tutt'altra direzione.
I due segretari generali, però, sono utilissimi a Roberto Formigoni, «governatore» lombardo che annusa l'aria di fine regime, per stigmatizzare questa mobilitazione. «Vedo che gli altri due sindacati hanno risposto picche in maniera dura. Da un sindacato è lecito aspettarsi proposte e controproposte, ma in genere lo sciopero è l'arma estrema». Qui, invece, sarebbe usato come «arma perventiva». Vuoi mettere una bella protesta dopo che la legge è stata approvata e non la si può più cambiare?
Detto sommessamente, dal Pd non sono arrivate - fino a sera - parole autorevoli. Solo Gero Grassi, deputato, ha preso parola per dirsi contrario alla scelta della Cgil.
Il sostegno politico esplicito è venuto dagli «extraparlamentari» di Rifondazione e da Di Pietro. Paolo Ferrero, nel giudicare la protesta «giusta e sacrosanta», annuncia anche «il pieno appoggio a questo importante appuntamento di lotta». L'immaginifico ex pm, nell'indicare nel solo governo (e Confindustria? non c'entra nulla?) il responsabile del malessere che sale dal paese, evoca la favola del lupo e dell'agnello, «in cui l'aggressore ha addirittura da ridire se l'agnello si lamenta». Tattica molto usata, sia nella politica interna che internazionale: potremmo chiamarla «vittimismo aggressivo», no?