VISIONI

Venga Mosè, anche se fra mille polemiche

PESARO - Provocatoria e riuscita messinscena del capolavoro di Rossini
PENNA ANDREA,PESARO

A Pesaro quest'anno sono fioccate polemiche e contestazioni, persino annunciate a mezzo stampa. Ora che il Rossini Opera Festival vira verso la conclusione, si può distinguere il merito dal pretesto, lasciando da parte i commenti roboanti, in molti casi rilasciati senza aver visto nemmeno una scena in teatro. Catalizzatore del dibattito, di per sé missione fra le principali di un festival, è stato il Mosè in Egitto con la regia da Graham Vick. L'ambientazione dell'azione sacra di Rossini, nata al Teatro San Carlo di Napoli nel 1818 e rivista l'anno successivo, è stata trasferita per lo spettacolo dell'Adriatic Arena nel teatro di guerra del conflitto mediorientale: gli egizi (iracheni, forse giordani) al centro della scena, una reggia-compound residenziale su più piani, bombardata ma ancora fulgida di ori pacchiani, creazione scenografica di grande effetto di Stuart Nunn; gli ebrei invece negli squallidi sotterranei e negli interstizi laterali, costretti da una cortina di cemento, ispirata chiaramente al muro che divide oggi Israele dai territori palestinesi.
Chiave provocatoria ma anche sottile: gli ebrei infatti sono presentati come terroristi spietati (lo stesso Mosè imbraccia un mitra, anche durante la preghiera «Dal tuo stellato soglio», emblema imperituro dell'opera), ma sono al tempo stesso gli oppressi, percossi dalle forze speciali, cacciati dai miliziani, che nel finale invadono la scena armi in pugno (e qui il riferimento all'attentato al teatro Dubrovka dava i brividi); all'inizio erano invece gli egizi a vagare in platea, sconvolti non dalla piaga divina delle tenebre, il colpo di teatro musicale straordinario che apre l'opera, ma per la devastazione di un attentato. Il continuo capovolgimento delle prospettive, il faraone-dittatore in divisa che si confronta con Mosè-predicatore islamico, con tanto di telecamera, gli ebrei attentatori kamikaze e poi prigionieri incappucciati di Abu Ghraib, accetta il rischio di turbare e confondere, al fine di dimostrare una sostanziale suddivisione di torti e efferatezze fra i due popoli in conflitto. Anche al prezzo di degradare l'intervento divino a azione umana, le piaghe trasformate in attentato, la folgore che spaccia Osiride mutata in crollo del lampadario; solo il Mar Rosso, mutato in muro di cemento, cede allo stendersi della mano del profeta, unico lampo di presenza trascendente.
Questa prospettiva, anche se impone una forzatura al libretto, non cerca lo scandalo gratuito ma un disegno coerente nel porre interrogativi sull'oggi senza distribuire certezze sulla storia. Sorprende in ogni caso come Vick riesca a non sacrificare in tale contesto la corrispondenza fra scena e ragioni della musica. Ragioni difese come meglio non si potrebbe da Roberto Abbado, che fa suonare splendidamente l'orchestra del Teatro Comunale di Bologna: dosaggi perfetti, campiture grandiose ma nessun gigantismo preverdiano, l'opera viene restituita nella sua prospettiva storica di asciuttezza e novità, a lungo negata a vantaggio della versione francese, Möise et Pharaon, di cui lo stesso Vick nel 1997 firmò al Rof un indimenticabile allestimento. Cast pienamente coinvolto nell'impresa: Alex Esposito, faraone tormentato, Riccardo Zanellato, corrusco Mosè, Sonia Ganassi, tempra da fuoriclasse nell'estremo ruolo 'Colbran' di Elcia, l'Osiride ardimentoso di Dmitri Korchak, e ancora la regina Olga Senderskaya, perfetta anche sulla scena, le belle prove degli altri due tenori, Yijie Shi e Enea Scala, Aronne e Mambre, e di Chiara Amarù, Amenofi. Nella replica del 18 il pubblico ha mostrato di comprendere e gradire, senza contestazioni.
Tanta attenzione ha messo in ombra l'altra opera seria, Adelaide di Borgogna, che completava il cartellone, insieme al La scala di seta, spassoso spettacolo ideato da Damiano Michieletto lo scorso anno. Si trattava del primo approdo sulle scene pesaresi dell'Adelaide, creata a fine 1817 con poco successo al teatro Argentina di Roma, su un libretto probabilmente di Giovanni Schmidt, autore di Armida. La vicenda di ambientazione altomedievale oppone Berengario all'imperatore Ottone nella successione al regno d'Italia, attraverso il matrimonio con la vedova di re Lotario, Adelaide.
Lo spettacolo ideato da Pier'Alli scorre con fluidità, ma la presenza costante delle proiezioni (guerrieri, fortezze, particolari architettonici, corone, carrozze, persino ombrelli), tolta la raffinatezza di alcuni quadri, risulta spesso pleonastica, e a tratti il rapido moltiplicarsi dei piani visivi finisce per stridere con il profilo musicale. Il clima cavalleresco ispira a Rossini pagine di rimarchevole qualità e virtuosismo, e alcune saranno infatti recuperate nell'opera-centone Eduardo e Cristina, ma per valorizzare l'opera occorre una bacchetta esperta, e Dmitri Jurowski sul podio fornisce una prova poco esaltante. La serata quindi prende il volo soprattutto grazie agli interpreti migliori, Daniela Barcellona, Ottone spavaldo e credibilissima sulla scena, Jessica Pratt, Adelaide volitiva, e il ruvido Berengario di Nicola Ulivieri. Bodgan Mihai presta voce all'impervio ruolo di Adelberto e Francesca Pierpaoli tratteggia un simpatico Iroldo. Il pubblico applaude, ma per vederlo scatenato si deve aspettare il Viaggio a Reims dei giovani, ormai una tradizione pesarese, che quest'anno ha offerto, oltre alla felice passerella di rossiniani in erba, la sorpresa della giovane cinese Yi-Chen Lin, bacchetta perentoria e brillante.

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