ECONOMIA

Occupazione sotto tiro

IL CRACK - Previsioni fosche per l'industria e le costruzioni. I dati peggiori nel Sud Italia, dove si concentra quasi la metà dei posti in via di sparizione
PICCIONI FRANCESCO,

In una tempesta gli allarmi non finiscono mai. Quello diffuso dal Centro studi di Unioncamere riguarda l'andamento della piccola e piccolissima impresa italiana, quella che fino a qualche anno fa faceva gridare al «miracolo» e alla santificazione del «piccolo è bello».
Sarà anche un'impresa flessibilissima, con contratti non sempre regolari o vincolanti per il «padroncino»; il rispetto degli orari di lavoro sarà pure «a occhio», con straordinari non sempre conteggiati bene... ma nemmeno questa può farcela. anzi, diventa il termometro dell'insorgere della febbre anche per quelle più grandi.
Il dato più gettonato è quello dell'occupazione: da qui alla fine dell'anno - dice Unioncamere - si perderanno nelle piccole imprese 88.000 posti di lavoro. E' da notare che questa associazione non è affatto catastrofista di mestiere (anche se, come tutte le associazioni di imprese, ha il vezzo di lamentarsi sempre molto). Appena nel giugno scorso aveva sformato un rapporto di tutt'altro tenore. «Nel 2011 aumenterà il valore aggiunto prodotto da ogni italiano», veniva prevista «una ripresa dell'occupazione con quasi 3127.000 assunzioni entro fine giugno», affidando il ruolo di volano alla ripresa delle esportazioni.
Una meraviglia contraddetta pesantemente a soli due mesi di distanza. «L'accresciuta incertezza su una possibile ripresa internazionale e le forti tensioni sul debito, non solo dell'Italia, ma dell'intera Eurozona e degli Usa, gettano ombre sulle prospettive delle imprese alla ripresa autunnale». Un'incertezza che pesa sui consumi delle famiglie - segnalate in robusto calo anche dall'Istat all'inizio dell'estate - e soprattutto su quelle aziende piccolissime che hanno come unico sbocco il mercato domestico (sia per i prodotti venduti direttamente sul mercato che per le commesse conto terzi di aziende più grandi).
Oggi, a scorrere i dati, non si trova più un settore che preveda di crescere almeno un po' di fatturato e ordinativi, unico modo di mantenere anche i livelli occupazionali. Va malissimo l'industria, che dovrebbe perdere da sola circa 59.000 posti di lavoro, tranne che per il comparto alimentare - costitutivamente meno sensibile al ciclo economico globale - e in parte anche per la meccanica. Subito dietro arrivano le ditte di costruzioni, che potrebbero lasciare a casa 29.000 unità. Qui parliamo di aziende impegnate, al massimo, in piccoli lavori di manutenzione, oppure che lavorano in subappalto; una dimensione che non trae insomma beneficio diretto da eventuali «grandi opere» ma è invece sensibilissima alla riduzione dei consumi (la manutenzione viene rinviata) o al taglio delle spese negli enti locali.
Una volta queste defaillance del settore industriale venivano in parte compensate dalla crescita dei servizi, oggi non più Anche qui tendono a sparire 29.000 posti, con una sottolineatura particolare per l'alberghiero e la ristorazione (che risentono del calo dei consumi). Basti dire che l'unica variazione positiva viene dai «servizi avanzati», con però la previsione di appena 1.500 persone in più.
Un discorso a parte merita ancora una volta il Mezzogiorno. Nel rapporto di giugno veniva indicato come rinato protagonista dello sviluppo economico (100.000 assunzioni messe in previsione), mentre ora sembra tornare al triste declino degli ultimi decenni: sarebbe concentrata qui, infatti, quasi la metà dei posti in via di sparizione (41.000), mentre il Nordovest (-19.000), il Nordest (-10.600) e il Centro (-16.600) dovrebbero soffrire un po' meno.
Non si può però tacere davanti al penoso tentativo di «addolcire la pillola» che accompagna il lancio stampa di questi dati. Viene detto dalle agenzie e ripetuto da tutti gli «utilizzatori finali» questo ritornello: «unica consolazione, il saldo negativo nei due anni precedenti era stato più pesante». Basta veramente un briciolo di autonomia di giudizio per capire che se ai posti in meno del 2009 (213.000) e del 2010 (178.000) aggiungiamo anche questi quasi novantamila abbiamo un aggravamento della situazione - mezzo milione di posti perduti - che non può davvero «consolare» nessuno.

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