ECONOMIA

E venne il giorno dell'Eurobond

LA CRISI FA CAMBIARE IDEA • La proposta di Tremonti viene ora presa in considerazione dalla Ue. Ma in pieno «terremoto» è tutto più difficile
PICCIONI FRANCESCO,

Alla ricerca di un medicinale miracoloso, ieri è stato il giorno degli Eurobond. Il commissario europeo agli affari economici, Olli Rehn, ha spiegato che la la sua commissione «si è offerta di presentare un report al parlamento europeo e al Consiglio per mettere a punto un sistema di emissioni comuni per i titoli di stato europei». A stretto giro di posta gli è arrivato il «nein, danke» della cancelliera tedesca Angela Merkel e del capo-economista della Bce, Juergen Stark. La prima si è limitata a ribadire una posizione di forza («noi non li vogliamo»), appena camuffata con una spiegazione assai discutibile (con una «collettivizzazione» del debito i paesi Ue starebbero peggio). Il secondo, ben più addentro ai problemi tecnici, ha detto che sarebbero «la cura dei sintomi della malattia, non delle cause».
L'idea di un titolo pubblico europeo, com'è noto, è stata più volte avanzata dal ministro italiano Giulio Tremonti, tanto da diventare quasi un suo personale tormentone. Ieri, però, oltre allo storico appoggio del presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker, ha incassato un «se ne può ragionare» a livello di Commissione. Tra gli entusiasti Daniel Cohn-Bendit, parlamentare verde tedesco: «ne abbiamo bisogno per rilanciare l'economia; se al contrario applichiamo una politica di austerithy le economie non ripartiranno». Sulla stessa lunghezza d'onda - in Germania - c'è la Spd e parte della Cdu, il partito della Merkel, mentre i liberali - che stanno anche loro al governo - non ne vogliono sentir parlare.
Le ragioni tedesche sono facili da capire e da contare. L'Ifo - istituto di ricerca molto quotato, che produce anche un indice economico col suo nome - ha calcolato che lo stato tedesco si ritroverebbe a pagare 47 miliardi di euro in più di interessi ogni anno. Il tasso nominale di interesse sui suoi bond decennali, infatti, è appena del 2,3%, mentre il tasso medio dei paesi dell'eurozona è del 4,6.
Ma cosa potrebbero essere gli Eurobond? Titoli di stato che sostituiscono, almeno per buona parte, i titoli nazionali. Il problema è che non esiste uno «stato europeo», né una politica fiscale comune per garantire la solvibilità dei titoli emessi. E qui cade ancora una volta l'asino: la costruzione della moneta unica è avvenuta nel vuoto pneumatico istituzionale e persino culturale, nonostante gli sforzi fatti per creare un «sentimento europeo» all'interno dei singoli paesi. Troppo facile, per i governanti di ogni paese, accollare all'Europa i vincoli di bilancio, le strette creditizie, le scelte fiscali che - a parità di saldo finale - sono invece ancora di loro esclusiva competenza.
Nei giorni scorsi si era dichiarato sponsor degli Eurobond anche George Soros, «squalo» della finanza che si è costruito nel tempo una fama da benefattore finanziando «movimenti democratici» in modo molto mirato. Ma nella sua peraltro lucidissima analisi sollevava «tre problemi» che affliggono l'eurozona. L'inesistenza di un'«agenzia bancaria» continentale in gradi di «interrompere la relazione incestuosa tra banche e ed enti di vigilanza, all'origine degli eccessi che hanno aliemtato l'attuale crisi».
La «strana idea di politica macroeconomica» sostenuta dalla Germania, secondo cui «gli altri paesi doverbbero seguire il suo esempio», è alla base di una serie di prese di posizione che provocano danni. È chiaro anche ai bambini, infatti, che «nessun paese può trovarsi in surplus commericale cronico» - è il caso dei tedeschi - «senza che altri paesi incorrano in deficit». Il successo tedesco, insomma, si alimenta degli insuccessi altrui. ma, soprattutto, questo impedisce di individuare una «politica economica coordinata» in cui ogni paese fa una cosa che può fare, secondo un progetto comune. 200 colpi di pennello quasi mai fanno un quadro, se non c'è un'idea dietro.
Naturalmente, nel caso di emssione di eurobond, la sovranità di ogni paese dovrebbe essere drasticamente limiatata e sorvegliata, fino a prevedere «vie d'uscita» non destabilizzanti l'insieme.
Facile a dirsi seduti a un tavolino. L'idea di Eurobond sarebbe stata facilmente realizzabile in «condizioni normali» di mercato, ma ha prevalso l'individualismo nazionalista che individuava nicchie di vantaggio (esempio: l'attività immobiliare monstre di Spagna e Irlanda) mentre si scavava la fossa con le proprie mani.
Costruire un muro continentale di obbligazioni ad alta affidabilità si sarebbe rivelato - in questa crisi del debito pubblico - una difesa molto autorevole. Ora è tutto molto più difficile. Pezzi consistenti dell'ipotetico «muro» (Spagna e Italia, in primo luogo) non sembrano poi così solidi. E i costi delle «riparazioni» - Grecia, Portogallo, Irlanda - sono già ora diventati fin troppo elevati.
Eppure non bisogna essere «rivoluzionari» per capire che una «unione» ha senso solo se si mettono in comune costi e «contributi». Un esempio? L'ha fatto ieri quel ragazzaccio ora «riformista» di Cohn-Bendit: «servono anche cambiamenti profondi, come l'instaurazione di un esercito e una diplomazia comuni, per alleggerire i debiti degli stati». Se hai fatto una «comune» da giovane, ti è più chiaro.

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