VISIONI

L'asso lottatore non vince mai

FANTASY - Esce anche sugli schermi italiani «Tekken», il live action diretto da Dwight H. Little
MAZZETTA FRANCESCO,

TEKKEN DI DWIGH H.LITTLE, CON JON FOO E IAN ANTHONY DALE, GIAPPONE 2010

Il primo pensiero vedendo Tekken (il film live action diretto da Dwight H. Little ispirato all'omonima serie di videogiochi di arti marziali) va al film dedicato ad un altro videogioco: Max Payne (John Moore, 2008). Qui come là è evidente come siano stati incomprensibilmente ignorati gli elementi fondanti della rispettiva fortuna videoludica. Da una parte abbiamo Max Payne videogioco che è uno sparatutto forsennato a fronte di un film dove si spara pochissimo (e non si vede mai l'effetto del «bullet time» che il videogioco ha ripreso da Matrix e ne è uno degli elementi caratterizzanti). Dall'altra parte abbiamo Tekken, una delle più famose serie di videogiochi di arti marziali (in gergo: «picchiaduro»") a fronte di un film in cui si combatte pochissimo.
Eppure il compito per Little pareva più semplice: di tre film dedicati ai picchiaduro almeno due possono considerarsi riusciti: Mortal Kombat (Paul W.S. Anderson, 1995 - fatta eccezione per l'eccessivamente pasticciato seguito di John R. Leonetti, 1997) e D.O.A. Dead or Alive (Corey Yuen, 2006). Entrambi, a differenza di Street Fighter (Steven E. de Souza, 1994), non hanno preteso di piegare ad una storia il torneo di arti marziali che è alla base di tutti, ma in entrambi, come nei videogiochi, la storia è un complemento del torneo e in primo piano c'è piuttosto il confronto tra le personalità e le abilità dei singoli combattenti. Per Tekken il compito pareva più semplice rispetto a Max Payne perché, oltre ai personaggi estremamente caratterizzati - in molti casi anche in modo più o meno apertamente caricaturale -, abbiamo in aggiunta una serie di vicende legate a ogni singolo personaggio che ruotano più o meno vicino alla storia della Mishima Zaibatsu, la megacorporazione che organizza il torneo.
E dunque all'interno di questo scenario è plausibile focalizzare la narrazione su Jin Kazama, figlio illegittimo di Kazuya Mishima e nipote di Heihachi, capo della Mishima Zaibatsu. Il tema portante dei vari episodi del videogioco è esattamente la lotta di potere tra i tre per il controllo della società unito alla possessione demoniaca con cui Kazuya si è salvato da un tentativo d'omicidio del padre e che ha trasmesso al figlio. Le varie tappe di questa lotta vengono scandite dall'organizzazione da parte di chi è di volta in volta a capo dell'organizzazione di un torneo di arti marziali denominato The Iron Fist Tournament («tekken» significa appunto «pugno di ferro», «iron fist» in inglese) per attrarre i due parenti dai loro nascondigli e poterli definitivamente sconfiggere.
Ma non si tratta di un gioco d'avventura e tutta questa storia complicata di per sé, a cui s'aggiungono i contributi di numerosi altri combattenti, più o meno coinvolti nelle trame della Mishima, e comunque tutti interessati a vincere il torneo, è semplicemente uno sfondo per i combattimenti in cui ogni personaggio ha un proprio stile che richiama ma non è mai uguale a quello dei suoi «parenti». La preoccupazione degli autori del film è stata invece di cercare di costruire una storia razionale che sostenesse le trame del clan Mishima immaginando una Terra del 2039 in cui le nazioni sono state sostituite dal regime oppressivo delle megacorporazioni, una delle quali, la Mishima appunto, detta legge su Asia e Stati uniti. La capitale della corporazione è la città di Tekken, dove si tiene il torneo di Iron Fist. Jin è un giovane corriere che trasporta merce per il mercato nero della città slum di Anvil fino a quando l'uccisione della madre da parte della polizia di Tekken lo spinge ad iscriversi al torneo per vendicarsi (ignaro del suo retaggio) dei capi della corporazione che potrà avvicinare solo vincendo il torneo stesso.
Tale risibile plot fantapolitico toglie spazio al torneo e aria vitale al film. Non vediamo mai ad esempio - benché siano personaggi presenti nel film - combattere Heihachi Mishima, uno dei personaggi più forti e intriganti del videogioco, o Anna Williams, le cui mosse inusuali di combattimento (schiaffoni e calci con scarpe con tacco alto) potevano dare il via a gustose gag (come in D.O.A.). Ma anche il conflitto economico/familiare all'interno della famiglia Mishima tra il padre Heihachi e l'ambizioso figlio Kazuya potevano portare a fuochi d'artificio marziali e invece si risolvono al di fuori del torneo con le armi (senza mai accennare al retaggio demoniaco di Kazuya e Jin). E la cosa purtroppo ricorda fin troppo da vicino Street Fighter (il film, ovviamente). Ma se per Street Fighter è comprensibile l'errore considerando che si tratta di uno dei primi film tratti da videogiochi, e se si escludono dal panorama tutti i film realizzati da Uwe Boll (che, per sua stessa ammissione, odia i videogiochi), non lo è per Tekken (come non lo era per Max Payne) che aveva di fronte l'esempio dei vari Resident Evil e perfino di Doom (che fallisce non tanto sul plot ma sul trasformarsi, nel finale, in un «picchiaduro» tra due personaggi eccessivamente caratterizzati in modo estraneo al gioco) che dimostrano come sia possibile estrapolare una linea narrativa da un'opera multimediale interattiva e svilupparla nella sceneggiatura di un film senza dare agli spettatori/videogiocatori la sensazione di tradimento inaccettabile.
Ancora una volta un'occasione persa per un'industria cinematografica che - a differenza di quel che capita coi fumetti - non ha ancora capito che con l'industria videoludica deve dialogare alla pari creando sequenze narrative che possano «ritornare» al medium di partenza ed essere sfruttate da altri media in un circolo virtuoso. La speranza, almeno per quanto riguarda i fan di Tekken, è riposta nel film d'animazione «computer generated» Tekken Blood Vengeange che uscirà in novembre allegato al nuovo episodio del videogioco: Tekken Tag Tournament 2.das

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