CONTROPIANO

La borsa è zona di guerra

MERCATI - Il temuto «double dip» - la seconda recessione, che trasformò il 1929 in un incubo planetario - sembra davvero essere alle porte
PICCIONI FRANCESCO,

Una giornata tremenda sui mercati. Sembra una notizia già sentita, ed è vero. Ma qui la ripetizione non annoia, perché i crolli in serie si sommano e modificano lo scenario globale.
Era cominciata maluccio, con le piazze europee in difficoltà sui titoli bancari (penalizzati - molto - dai timori sui debiti sovrani dell'area e - poco - dalla volontà di tassare le transazioni finanziarie espressa da Sarkozy e Merkel), ma pesanti soprattutto sui due pilastri dell'economia reale: auto e costruzioni. Più che ai listini si guardava alle notizie, cercando conferma o smentita a voci incontrollabili che parlano di un nuovo «blocco creditizio» in gestazione. L'esperienza del 2008-2009 è troppo vicina per non far tremare chi «sui mercati» ci opera tutti i giorni. Allora era successo l'impensabile, sull'onda del crollo di Lehmann Brothers: le banche avevano smesso di prestarsi i soldi vicendevolmente e, a maggior ragione, alla clientela «normale», aziende comprese. Innescando quindi una gelata nell'attività produttiva «reale».
La conferma si faceva strada presto: una banca europea, il giorno prima, ha chiesto un prestito di 500 milioni di dollari alla Bce, da restituire in una settimana. Operazione normale tranne che per un fatto: il tasso di interesse che la Bce applica è dell'1,1%, molto più alto del tasso interbancario (la base dell'Euribor). Se quella banca si è rivolta alla Bce, quindi, significa che non ha trovato un'altra banca disposta a prestarglieli. Il nome resta sconosciuto, ma è il segnale di «difficoltà» nella fiducia tra istituti di credito. Un'altra banca, la settimana prima, aveva fatto ricorso al cosiddetto «Bancomat caro» della Bce - il marginal lending facility - per chiedere 4 miliardi di euro. E due punti fanno una linea; il problema c'è. Non era finita. La Federal Reserve americana sta monitorando le filiali Usa delle banche europee per verificarne la capacità di finanziamento (in dollari, non a caso) per effettuare regolarmente la propria attività sul territorio statunitense.
Bastava questo per fare crollare le borse europee nell'ordine del 3%, in media; con Milano come sempre più «volatile» di tutte. Ma era poi lo stillicidio di pessimi dati macro Usa a dare un tocco di tragedia a una giornata difficile. Le vendite di case esistenti è sceso ancora, a luglio, del 3,5%. Le richieste di sussidio di disoccupazione sono aumentate di nuovo oltre le 400.000 solo la scorsa settimana, portando la cifra totale dei «sussidiati» a 3,7 milioni. L'inflazione a luglio è salita dello 0,5%, più delle previsioni. E infine l'indice di Filadelfia, che misura lo stato dell'industria manifatturiera è stramazzato dal +3,2 di luglio al -30,7 di agosto. Una «gelata» fuori stagione che diventa l'identikit dell'America.
Wall Street apriva con un tonfo tra il -4 (il Dow Jones) e il -5% (il Nasdaq) e non riusciva a risalire - se non di frazioni - per tutto il pomeriggio. L'Europa cedeva di schianto, raddoppiando le perdite (Francoforte -5,9, Parigi - 5,5, Milano -6,15) e «bruciando» quasi 300 miliardi di capitalizzazione. I titoli della Cnn farebbero impallidire un catastrofista convinto: «È zona di guerra», «Il bagno di sangue dei titoli tech», «Pericolosamente vicini alla recessione».
E - al di là delle oscillazioni quotidiane dei listini - la questione è esattamente questa: il temuto double dip (la seconda recessione, che trasformò il 1929 in un incubo planetario) sembra davvero alle porte. Senza che nulla sia cambiato rispetto al «credit crunch» del 2008. Di fatto, gli Stati sono stati mobilitati per «salvare il sistema finanziario»; per farlo hanno distrutto i propri bilanci, gonfiando oltre misura il debito pubblico mentre tagliavano disperatamente la spesa sociale per «reperire risorse». Al termine di questa prima ondata di tagli, il sistema finanziario ha ringraziato e ricominciato a praticare il «solito vecchio gioco» e la pura speculazione; di regolamentazione globale della finanza si è smesso persino di parlare (Draghi ci scuserà, ma la sua presidenza del Financial Stability Forum non ha lasciato alcun risultato tangibile). Ora tutto tende a bloccarsi di nuovo. Gli Stati non sono però più una risorsa di denaro fresco, ma una parte del problema. Per questo le misure avanzate da Merkel e Sarkozy non avrebbero potuto «rassicurare i mercati» neanche se fossero state cento volte più intelligenti.
Il sistema finanziario globale sta affrontando la fase del deleveraging, in cui si sgonfia progressivamente l'effetto «leva» della presenza di un sistema bancario «ombra», fatto di prodotti derivati, cds, abs, cdo e quant'altro. Questa massa di denaro virtuale è tale (600.000 miliardi di dollari, 10 o 12 volte il Pil mondiale) da non poter essere contrastata da nessuna misura atta a «salvare le banche». Forse nemmeno se si reintroducesse - in tutto il pianeta - il principio guida del Glass-Steagall Act, imposto nel dopoguerra: gli Stati possono garantire le banche commerciali (l'attività di raccolta e prestito su garanzia), non quelle «d'affari», lasciando affondare queste ultime prima che trascinino all'inferno l'umanità.

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