Impalato davanti al microfono, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la testa china seminascosta da una frangia di capelli bianchi: lungi dal mettere a disagio, l'immobilità di Tom Harrell - quando non imbocca la tromba o il flicorno per esporre il tema o per prendere un assolo, nella sua assoluta negazione di qualsiasi appeal scenico, è una sorta di anti-presenza che risulta senza volerlo come un invito alla concentrazione: una sollecitazione al rigore tanto dell'ascolto da parte del pubblico, quanto nella creazione della musica da parte degli accompagnatori.
È raro assistere ad un concerto di jazz in cui la platea sia così assorta, e il silenzio così complice: tanto più in un concerto all'aperto, d'estate, sul bordo dell'acqua, quella del Porto dei Cesari che è una delle cornici in cui si svolge Fano Jazz by the Sea. È raro vedere un gruppo di jazz - quale che sia il suo orientamento stilistico - che suoni con una cura simile, con una dedizione così palpabile alla fattura della musica. Qualche lampo di un temporale sullo sfondo e che si poteva pensare in avvicinamento, qualche folata di vento che ad un certo punto ha fatto temere il peggio, hanno reso l'atmosfera ancora più speciale.
Sessantacinquenne, Harrel è affetto da disturbi di tipo schizofrenico, il che non gli ha impedito di condurre una carriera jazzistica di prim'ordine, come strumentista (con una vasta esperienza anche in campo orchestrale: Stan Kenton, Woody Herman, Mel Lewis, Sam Jones-Tom Harrell Big Band, Liberation Music Orchestra), leader, compositore e arrangiatore. Per i propri piccoli gruppi Harrell predilige il quintetto, e con questo formato è tornato per le date italiane della stagione, con gli stessi musicisti - fra i quali è l'unico bianco - che figurano nel recente Roman Nights (High Note Records). In Wayne Escoffery, sax tenore, inglese ma dall'adolescenza negli Stati Uniti, non è difficile cogliere fin dalle prime battute la frequentazione con lo stile di un eminente sax alto del jazz moderno, Jackie McLean, una delle più interessanti personalità sassofonistiche del jazz moderno, con il quale ha studiato per diversi anni: Escoffery suona in maniera concettosa, con una classe che è tutta mirata all'espressione, senza inutile sfoggio di virtuosismo, e con una passione che traspare ma che il sassofonista ha la capacità di controllare, di tenere a freno, col risultato di introdurre nelle sue improvvisazioni una corroborante tensione. Danny Grissett è un pianista sobrio e parco, che articola le note in maniera molto distinta: il grosso del suo gioco è nelle frasi della mano destra, mentre lieve, discreto, spesso appena accennato è quello della sinistra sul registro basso. Poco appariscente ma funzionale il contrabbassista Ugona Ogkewo. Col suo drumming Johnathan Blake è infine uno dei motivi che rendono adorabile un gruppo come questo: preciso, nitido, assai dinamico e vario e sempre giudizioso nel calibrare i timbri e contenere il volume. Ma tutta la musica del quintetto è estremamente disciplinata, senza con questo perdere nulla in termini di feeling e di swing. Rinomato come autore, Harrell propone temi eleganti, che mantengono una signorilità, un contegno, anche quando sono più spiccatamente accattivanti. La matrice della musica che Harrell propone col quintetto è in alcune delle forme di jazz non free più avanzate degli anni Sessanta: da atmosfere sottilmente inquiete si va a brani garbatamente soul jazz, a riff godibilmente funky, in cui Grissett introduce una punta di piano elettrico, ad un bis di sapore latin jazz (un ambito con cui anche come arrangiatore per altri Harrell ha una notevole dimestichezza).
Di pregio straordinario l'insieme dei due fiati nelle esposizioni dei temi, e affascinante il solismo di Harrell, che spesso ricorda Miles, ma che è estremamente personale col suo suono caldo, morbido, pastoso, e il suo linguaggio generalmente stringato, essenziale, logico: con qualcosa, persino, pur all'interno di un contesto e di una poetica ben diversa, del senso di un segno pittorico caro alla tromba di un maestro del free come Bill Dixon. Se guardiamo al jazz che fa largamente da base all'estetica di Harrell, è un jazz storicamente antecedente per esempio all'irrompere del jazz elettrico: ma nel confronto, John McLaughlin, che del jazz elettrico è stato un battistrada e uno dei massimi alfieri, esibitosi la sera prima al Teatro della Fortuna con grande decoro e certamente con un suo perché, ci è apparso - con tutto il rispetto - più antico della musica di Harrell: dove non c'è mai neanche l'ombra della nostalgia per i bei tempi andati, e che nella sua intensità dal tempo, per lo spazio di un set, è come se ti portasse fuori.