L'ULTIMA

Gianni Celati NON È NORMALE

storie - DA UN PENSIERO ALL'ALTRO INCONTRO CON LO SCRITTORE
NISIVOCCIA NICCOLO,

Sono seduto con Gianni Celati a un tavolo all'aperto del ristorante Jodok, all'interno dell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, da molti anni ormai recuperato ad un luogo altro da quello che era: vi si trovano, oltre al ristorante, un ostello e un teatro. Tutto è gestito dall'associazione Olinda, che da quindici anni organizza anche, ogni estate, il festival «Da vicino nessuno è normale»: incontri, concerti, film, spettacoli. Questa sera sarà proiettato Diol Kadd. Vita, diari e riprese in un villaggio del Senegal, l'ultimo lavoro di Celati: un documentario già premiato lo scorso autunno al Festival del Cinema di Roma. L'aria è fresca nonostante il caldo del giorno, per effetto del grande parco nel quale il luogo è immerso; e l'atmosfera dolce e quieta, e semplice. Qui, Milano non sembra neppure Milano.
Questo posto assomiglia moltissimo a Celati, mi viene da pensare mentre parliamo. Anche Celati è così, infatti: quieto e dolce e dolcemente svagato, fin dal tono della sua voce, gentile e disponibile. E questo è anche il tono delle cose che scrive e dei suoi documentari cinematografici: l'elemento che accomuna le une e gli altri è uno sguardo sul mondo privo di pregiudizi e di pretese ideologiche, uno sguardo che abbraccia tutto e non rifiuta niente, perché tutto è degno di essere guardato e niente è banale. È lui stesso ad aver detto, una volta, che niente di ciò che ci passa davanti agli occhi o per le orecchie o di ciò che scorre nelle nostre fantasie va disperso: l'insieme forma quello che Celati chiama «il disponibile quotidiano», e «la mia idea o il mio sogno strampalato consisterebbe nel creare un impatto» con questo «disponibile quotidiano». Incontrare Celati è un'emozione, perché leggere i suoi libri (dalle Avventure di Guizzardi a Narratori delle pianure, da Verso la foce a Vite di pascolanti ad altri ancora) o guardare i suoi documentari corrisponde ad amarlo, e forse anche di più: a riconoscervi un maestro e quasi una specie di mito, con il quale tuttavia il colloquio è facile e piacevole, com'è appunto questo luogo.
L'occasione dell'incontro è il documentario che sarà proiettato fra poco e la recentissima contemporanea uscita, da Fandango, di Cinema all'aperto, un cofanetto nel quale sono raccolti i suoi tre documentari precedenti (Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri e Case sparse - Visioni di case che crollano) e un piccolo volume a cura di Nunzia Palmieri che assemblea testi suoi e di altri sulla sua idea di cinematografia, e, da Quodlibet, di Conversazioni del vento volatore, un libro nel quale pure sono riuniti alcuni suoi testi sul cinema ma anche sulla letteratura, sullo scrivere, sulla vita.
Ma sono pretesti per parlare d'altro. Gli chiedo allora, per prima cosa, quali siano ora i suoi progetti, a cosa stia lavorando se sta lavorando a qualcosa e dove lo vedrà il prossimo futuro: «Sto lavorando a Joyce - mi risponde - a una nuova traduzione dell'Ulisse che mi ha commissionato l'Einaudi, e voglio finirla, devo assolutamente finirla entro l'autunno. Questa traduzione mi sta rovinando l'esistenza, mi sveglio ogni mattina alle sei e lavoro fino alle sei del pomeriggio. Sto facendo i conti con le dissonanze di Joyce, che sono il fior fiore della sua scrittura, e con le situazioni di irlandesismo che Joyce caccia nell'Ulisse, a volte anche poco simpatiche. Se c'è uno che si è sbilanciato politicamente, questo è Joyce. Ma c'è una tradizione che risale ancora alla prima edizione. È molto complicato, e ho chiesto all'Einaudi di trovare qualcuno che controlli, verifichi i substrati culturali. Poi non so, dopo che avrò terminato. Lo scrivere - quello che ho scritto e quello che potrei scrivere - mi sembra sempre più desolante, e mi preoccupa il pensare a dove andrà a finire ogni cosa nel futuro, in quali archivi. Non ho mai imparato, capito come si fa a fare lo scrittore e credo che ci darò un taglio, che non scriverò più. Vorrei andare in India, a Bombay, perché quella è una parte dell'India che mi interessa, buttata lì, povera. Vorrei andarci con un paio di operatori ma non so se troverò i soldi, i finanziamenti».
Come il titolo del suo ultimo libro appena pubblicato da Quodlibet, anche Celati è come il vento e come il vento vola da un pensiero all'altro, da un luogo all'altro. Nella sua vita non è stato mai fermo, ha vissuto a Ferrara, a Bologna, negli Stati Uniti, in Francia, in Svizzera, in Africa, ora da vent'anni vive in Inghilterra ma è ancora sempre in viaggio: «Ci si sposta perché c'è sempre qualcosa nella vita che ti fa spostare, come il vento. Non ho mai avuto idee presupposte. Da giovane ad esempio ho vissuto a Parigi per via di un amico che si era buttato nella Senna per amore di un ragazzino. Sono andato a casa sua e gli ho fatto per del tempo da cuoco perché capivo che mangiare era d'aiuto al suo desiderio frustrato. O come quando sono andato negli Stati Uniti: al termine di una notte in cui ci eravamo ubriacati chiesi al mio amico John Freccero, che poi è diventato un famoso italianista, "John ti prego aiutami a trovare un posto" e lui me ne trovò uno, all'università. Ora vivo da vent'anni in Inghilterra, a Brighton, perché mia moglie per caso aveva scoperto che lì i mutui per l'acquisto delle case erano favorevoli. Ma adesso potrei venire a vivere qui al Paolo Pini, questo luogo mi piace moltissimo. Dovrei chiedere se ce ne sarebbe la possibilità».

Pacificato nei confronti del mondo
Tutto si tiene, in Celati: la sua dolce svagatezza e il suo parlare fluttuante. Tutto rivela una profonda pacificazione nei confronti del mondo; e da questo punto di vista Celati sembra voler confessare il suo debito nei confronti di Luigi Ghirri, il grande fotografo emiliano morto ancora giovane nel 1992 con cui Celati aveva molto collaborato (insieme fra l'altro avevano pubblicato da Feltrinelli quella perla oggi introvabile che è Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano) e cui è dedicato uno dei tre documentari riuniti nel cofanetto di Fandango: «Anche Ghirri si sentiva smarrito, come me, tanto smarrito che per due o tre giorni lo tennero chiuso in un manicomio. Ghirri mi ha insegnato molto, non aveva mai astio verso niente e nessuno e io gli sono andato dietro come un pulcino per vedere se potevo imparare a essere come lui». Al tempo stesso, si capisce che questa pacificazione deriva a Celati da una sua capacità di lasciarsi andare alla vita e di cogliere le cose senza opporvi resistenza, rilassando l'anima.
Del resto, questo è anche il senso dello scrivere, per Celati: «Sì, bisognerebbe scrivere sempre come in un dormiveglia. Narrare è un perdersi con la testa, è fantasticare, è un rilassamento non solo dell'anima ma anche del corpo. Solo così si può cercare di scappar via dallo scolasticismo a cui cercano di legarci fin da quando siamo bambini». Probabilmente è questa la rêverie di cui talvolta ha parlato (e di cui spesso parla e da cui sembra ispirato anche Antonio Tabucchi, che non a caso di Celati è un ammiratore): questo saper cogliere e raccontare la vita senza sovrapposizioni, attento tuttavia a distinguere la realtà dal realismo. Si ha l'impressione, leggendo i libri o guardando i documentari di Celati, che il suo modo di vedere sia lo stesso dei bambini, e forse anche dei matti: «Non esistono immagini fisse. A questo proposito, nelle Conversazioni del vento volatore c'è un mio scritto su Giacometti, che è uno dei grandi filosofi della nostra storia dell'arte. Le uniche cose che vediamo come fisse non sono le immagini ma sono i prodotti, che danno l'impressione di essere sempre la stessa cosa anche se cambi angolo visuale. Ma questo è il logo, la cosa da vendere. Il vedere invece è un continuo cangiamento, e così è anche per le orecchie e la musica. Non sentiremo mai la stessa chiave di musica. Giacometti diceva che Rodin non guardava le figure ma prendeva le misure di possibili teste».
Nondimeno, pensieri di questo genere contengono anche implicazioni ideologiche; e se ne ha una conferma leggendo i saggi contenuti nel volume allegato al cofanetto di Fandango, in uno dei quali Celati, discorrendo sul cinema italiano del dopoguerra, rivendica in effetti fra gli elementi che lo caratterizzavano l'idea di una «vita gratuita, del vivere per vivere», sostituita oggi dall'idea opposta di una «vita completamente finalizzata e calcolabile», dove «non esiste la possibilità d'uno sguardo su cose qualsiasi, senza un valore informativo specifico».
Si capisce bene allora la dissonanza di Celati rispetto al pensiero comune; e si capisce che è forse proprio da qui che viene il suo amore per l'Africa di questi ultimi anni, oltre che dall'amicizia con Mandiaye N'Diaye, coautore nei fatti del documentario su Diol Kadd, il piccolo villaggio nella savana senegalese di cui Mandiaye è originario. Glielo vorrei chiedere, e gli vorrei chiedere anche se è questo il motivo per cui un'altra volta ha detto che dobbiamo imparare molto dagli Africani e cosa dovremmo imparare. Ma la proiezione del documentario sta quasi per cominciare e prima c'è appena il tempo di mangiare un boccone. La risposta alle mie ultime domande la troverò nel documentario stesso e nella voce narrante fuoricampo di Celati, che in un passaggio ad esempio osserva: «La vita che passa, nel ricco occidente, è una cosa ansiogena perché tutto dipende dai soldi che guadagni e dalle grandi spese che puoi permetterti. Qui a Diol Kadd invece basta quello che serve per vivere. Nel ricco occidente i giorni si consumano, qui invece il tempo segue il ritmo della vita e ricorda le nostre campagne da piccoli. Qui il tempo è pacificato». Alla fine della proiezione, uno spettatore si avvicinerà a Celati e gli dirà: «Gianni, questo film è stupendo, è una poesia gentile».

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