CULTURA

Medio Evo contemporaneo

CULTURA EQUIVALENTE UNIVERSALE
TODESCHINI GIACOMO,

L'enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza (Feltrinelli, 2011, nell'originale, The Enigma of Capital: And the Crises of Capitalism, Profile Books, 2010) di David Harvey, attualmente distinguished professor di antropologia al Graduate Center della City University a New York, è un libro da leggere per capire come mai la fase di estremo disfacimento e onnipotenza del capitalismo occidentale ormai globalizzato determina per le persone, la stragrande maggioranza delle popolazioni dei cinque canti del globo, condizioni di vita perfettamente umilianti, al limite della schiavitù, e spesso ben oltre questa soglia che si pretenderebbe bandita dalla «modernità».

Dipendenza assoluta
È anche, questo libro, utile da leggere per prendere atto del fatto che i marxisti anglo-statunitensi (Harvey ha fatto il suo PhD a Cambridge negli anni Sessanta, e ha poi insegnato alle Università di Bristol e di Oxford) riescono a scrivere di capitalismo e disastri connessi, in una chiave né da addetti ai lavori un po' arroganti, né spensieratamente demagogica, ma concreta, colta e combattiva allo stesso tempo. Senza aver paura di insegnare quello che spesso non si sa.
Già in un suo libro precedente (La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, il Saggiatore 1993, Net 2002) Harvey aveva ben mostrato che nella fase attuale della cultura neoliberista e delle logiche di uno sviluppo economico mirante allo sfruttamento indiscriminato e selvaggio dei più deboli, si riaffacciano sulla scena del mondo ogni sorta di servaggi e di precarietà, ossia si moltiplicano, diventando leve fondamentali dello «sviluppo», forme antiche e medievali di dipendenza assoluta e di distruzione dei diritti degli uomini e delle donne di esistere come persone, demolite da tempo le fantasticate libertà di individui abitualmente liberi soltanto, come diceva una canzone degli anni Sessanta, «di esporre i panni al vento».
Analogamente ora in questo libro il geografo ed economista statunitense fa vedere al lettore, con una chiarezza che i pontefici della sinistra italiana per lo più ignorano, quanto la realtà abbia superato i più foschi presagi dell'ultimo Marx. Il libro conquista il lettore dalla prima riga ricordandogli che il «flusso del capitale» è un fenomeno organico e impersonale, una forma di fisiologia culturale che nessuno in realtà controlla, benché da un'epoca all'altra abbondino quelli che, da ricchi al comando, se ne sono avvalsi per arricchirsi di più, indirizzando e guidando opportunamente il «flusso». Harvey, del resto, non usa a vuoto la parola «flusso»: al fondo del suo ragionare sta una metafora molto antica del denaro, quella della circolazione sanguigna.
Come Bernardino da Siena nel Quattrocento, Bernardo Davanzati nel Cinquecento, e poi John Toland e Ferdinando Galiani, fra Sei e Settecento, Harvey coglie in effetti con questa metafora, dipendente da una rappresentazione castale e poi classista delle società umane rappresentate come organismi gerarchici (anche se la divisione in caste e in classi, di cui Harvey mostra la perversa disumanizzazione, piaceva invece alquanto a Bernardino, Davanzati, Toland e Galiani) quanto di profondo e inesorabile vi sia in un processo di accumulazione che nel corso del tempo ha fatto del denaro circolante non soltanto un equivalente universale, ma anche un oggetto perfettamente astratto, maneggiabile e raccontabile con le parole, apprendibile con la mente prima che con le mani, una matematica concreta in grado di numerare il valore e la dignità delle vite. La cosa, nell'aspra realtà di tutti i giorni, più vicina ad un puro Spirito. Uno Spirito, però, come tutti gli Spiriti evocati dalle culture che hanno padroni e signori, estremamente duttile e servizievole nei confronti di chi ne conosca i segreti e le magie, e dunque sappia spiegarne, a chi non li sa, i fascini e le promesse.
Harvey fa capire molto bene, a chi legge, sino a che punto il denaro come oggetto «dematerializzato» funziona al servizio di chi ha potere sociale in una logica che, mentre accresce la ricchezza dei più ricchi a spese dei meno forti e dei più poveri, coincide con una volontà di potenza e di conquista molto tipica di un Occidente cristiano caratterizzato dalla tensione a universalizzarsi, o, come oggi usa dire, a globalizzare i propri valori e a invadere ogni spazio geografico e mentale possibile.

Gli «spiriti animali»
La faccenda ha a che fare, osserva limpidamente Harvey, con una impostazione economica che si realizza in termini di conquista maschile del mondo: «La conquista dello spazio e del tempo e la supremazia sul mondo (sia sulla "madre Terra" sia sul mercato mondiale) appaiono, in molte fantasie capitaliste, come espressioni rimosse ma sublimi del desiderio sessuale mascolino e della fede carismatica e millenaristica. È questa la fede ossessiva che incita gli "spiriti animali" dei finanzieri in un crescendo di euforia? È questo il motivo per cui così tanti maghi della finanza e gestori di hedge fund sono maschi? È così che ci si sente quando si specula sull'intero valore di moneta neozelandese in un'unica operazione? Che potere straordinario di cavalcare il mondo e di piegarlo al proprio volere!».
Che la questione non sia un fuoco di artificio degli ultimi trent'anni, e che nemmeno sia tutta determinata dalla rivoluzione industriale, che insomma la megalomania capitalista oggi esplosiva e distruttiva («quella che oggi chiamiamo globalizzazione è da sempre nelle mire della classe capitalista» ci dice francamente Harvey, dopo una fulminante citazione dal Manifesto del partito comunista di Marx e Engels) affondi le sue radici in antichi e a volte dimenticati deliri di onnipotenza religiosa ed economica prodotti in quella che fu la piccola Europa preindustriale non è un mistero per Harvey. Una cultura economica che ha come obiettivo indiscutibile di «conquistare la terra intera come suo mercato» (come scriveva Marx nei Lineamenti fondamentali dell'economia politica, e Harvey riprende) non è forse intrisa di teologia, seppure lo neghi rivestendosi di statistiche e di elucubrazioni sulla «felicità» dei consumatori?

Economia iniziatica
È tuttavia consapevole, il nostro economista-geografo, del fatto che questo discorso è un po' tabù, anche a sinistra, dato che il dogma storiografico-economico oggi ancora imperante recita che tutto è cominciato al massimo l'altro ieri. Ma proprio la tarda fase dello sviluppo capitalista, con i suoi enigmi riguardo alla produttività infinita eternamente ricreabile, e le sue mitologie di ricchezza senza fine, con lo stuolo di vittime che trita nei suoi ingranaggi (vittime e poveri da sempre necessari come serbatoi di manodopera, ma oggi sempre più indispensabili a un capitale che si riproduce a ritmi vertiginosi e al prezzo di disoccupazioni e sottoccupazioni di massa), proprio la fase nella quale viviamo, di desertificazione di continenti, monoculture devastanti, truffe orchestrate da una finanza planetaria che gli Stati spalleggiano per mezzo delle istituzioni bancarie e di cui la massa anonima dei consumatori affogati nei debiti paga il prezzo: tutto questo, al di là dell'economia degli economisti, neo-liberal o no, ha bisogno di storia, e cioè di spiegazioni.
Per fare e per cambiare, in definitiva bisogna capire perché siamo arrivati fino a qui. E Harvey, coraggiosamente, poiché il suo fine è prospettare una via che possa essere percorsa dalla maggioranza, finalmente alleata, «degli insoddisfatti, degli alienati, degli indigenti e degli espropriati» («Che fare? E chi lo farà?»), indica chiavi e ragioni che sciolgano gli enigmi di un'economia iniziatica fondata sul consenso devoto delle sue vittime e illuminino i misteri della religione del capitale. «Man mano che si affermava, il capitalismo portava al suo interno molteplici tracce delle diverse condizioni in cui si era compiuta la trasformazione verso il nuovo assetto. Forse si è attribuita troppa importanza al ruolo svolto dal protestantesimo, dal cattolicesimo e dal confucianesimo, con le loro diverse tradizioni, nel determinare le diverse configurazioni del capitalismo in varie parti del mondo; ma sarebbe sconsiderato suggerire che tali influenze siano irrilevanti o persino trascurabili». Il tono è piacevolmente timido e garbato, ma il concetto è chiaro.

Pulpiti e accademie
Per approfondire il dramma delle povertà mondiali, dell'indebitamento cronico di milioni di persone ipnotizzate da una logica dei consumi il cui obiettivo finale è far pagare alla folla dei consumatori-sudditi il prezzo delle speculazioni dei signori della finanza, bisogna cominciare a domandarsi da quale dimensione del tempo e dello spazio arriva l'odierno modo di vivere il denaro: e quali ferrei collegamenti connettono il capitale post-moderno e il «connubio Stato-finanza» che lo caratterizza, al lungo passato europeo di un'economia signorile e teologica fondata sul diritto supremo e divino dei «felici pochi» di arricchirsi a scapito della maggioranza dei fedeli/subalterni. Presentandosi, in più, come garanti carismatici di un «bene comune» descritto dai pulpiti e dalle accademie come la prima tappa verso una Salvezza eterna e luminosa.

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