La questione è piombata al centro dell'arena negoziale già all'inizio dell'anno, durante una riunione del Comitato esecutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), quando la direttrice Margaret Chan ha preso in contropiede i 193 stati membri annunciando il proposito di imbarcarsi in una consistente ristrutturazione dell'agenzia. Con raro coraggio, secondo alcuni; con la sola (e meno nobile) intenzione di blindare la propria candidatura a un secondo mandato, secondo molti altri. Tant'è. La decisione di riformare la agenzia delle Nazioni Unite ha dominato incontrastata la discussione all'annuale Assemblea Mondiale della Sanità lo scorso maggio, agitando non poco gli animi della comunità impegnata in salute pubblica e conquistandosi le prime pagine della stampa internazionale. Si tratta di un passaggio storico per l'Oms, lo snodo più critico dai tempi della sua fondazione nel 1948.
L'Oms è malata, i sintomi sono numerosi e anche gravi, ed emergono dai commenti di alcuni funzionari ai più alti livelli: assenza di visione sul proprio ruolo, mancanza di coraggio e di leadership, scarsa trasparenza, un'immagine pesantamente ammaccata negli ultimi anni dai ricorrenti episodi di commistione con l'industria farmaceutica (ad esempio nella gestione della influenza A e della H1N1, e nella scelta degli esperti di un gruppo di lavoroper l'innovazione medica). L'indipendenza dell'Oms è messa in dubbio dall'interno, laddove si riconosce che - sempre più spesso - la competenza tecnica dell'organizzazione deve essere negoziata politicamente con gli interessi degli stati, con esiti talvolta disarmanti. Ciò che alimenta crescente disimpegno e l'adattamento diffuso dello staff alle logiche geopolitiche dei «consensi» che a turno guidano il mondo - di gran voga, in questi anni di crisi, il Davos consensus.
E poi c'è la crisi dei fondi: e molti considerano che sia questa la vera spinta alla riforma. All'Oms mancano 300 milioni di dollari per far quadrare i conti. E però, prima ancora di promuovere una analisi reale della situazione, la Chan ha frettolosamente introdotto una politica di austerità per tagliare del 12% il personale di Ginevra (circa 300 persone) e ridurre il budget 2013-2013 di circa 600 milioni di dollari (3,96 miliardi di dollari) rispetto a quello del 2011-2012.
La cifra del «buco» non sarebbe di per sè stratosferica, se i 193 paesi membri ci investissero con convinzione nell'unica agenzia incaricata della salute mondiale. Purtroppo, alcuni governi hanno ammesso la reticenza al finanziamento di una agenzia poco trasparente ed ondivaga, quando si tratta di politiche pubbliche. D'altronde, la salute è terreno terribilmente controverso, crocevia di interessi commerciali immensi (la sanità è il secondo business mondiale per volume dopo quello delle armi): quale paese ricco è davvero interessato a promuovere un'Oms politicamente forte e capace di far prevalere le ragioni della salute? Chi vuole un'agenzia in grado di tener testa alle lobby del cibo o dell'energia, alle multinazionali del farmaco o all'industria dell'alcool, solo per citare alcuni dei comparti industriali che, sulla salute, producono un impatto diretto, e devastante? Quale governo si azzarda a contrastare l'ideologia privatistica in campo sanitario, diffusa ormai ovunque dal vento neoliberista, soprattutto nei paesi più poveri?
Oggi, il core funding (finanziamento diretto) all'organizzazione non supera il 20% del suo budget, l'altro 80% è destinato a specifici progetti scelti dai paesi finanziatori con priorità spesso discutibili, a discapito di altre questioni cruciali: un caso per tutti il dipartimento sulla proprietà intellettuale.
In questo vuoto- che è vuoto di politica e di democrazia, più che di governance - si muove con straordinaria abilità Bill Gates, invitato per la seconda volta in sei anni ad aprire la Assemblea annuale dell'Oms per lanciare «il nuovo decennio dei vaccini». L'esortazione del miliardario americano a salvare la vita di 10 milioni di persone entro il 2020, è un indizio eloquente su chi oggi definisce le strategie in materia di salute globale. E rimanda direttamente alla riforma dell'Oms con un duplice significato. Infatti a maggio, Bill Gates risultava il primo (solo?) finanziatore del pacchetto di riforma dell'Oms, fatto che ha suscitato immediate reazioni contrarie di molti governi. Inoltre, nel suo rapporto ai delegati, Margaret Chan sollecitava i governi ad aprire un ulteriore varco ai finanziamenti privati, per risolvere le difficoltà finanziarie. Gates del resto partecipa già oggi per il 10% del budget dell'Oms, e nel 2008 era il secondo contributore volontario dopo gli Stati Uniti (con 338, 8 milioni di dollari). Insomma: sembra proprio che la strada indicata sia quella di «privatizzare» la politica dell'Onu per la salute globale.
Non c'è dubbio che una riforma dell'Oms sia indispensabile. Si tratta di un'opportunità unica per restituirle l'identità multilaterale prevista dalla sua costituzione, a fronte della crescente complessità delle sfide sanitarie del pianeta - basta pensare ai cambiamenti climatici globali. Di un passaggio critico per ripristinare la legittimità dell'agenzia, debilitata nell'ultimo decennio dalla irrefrenabile proliferazione di nuovi attori nel campo della salute, sulla spinta di una imprenditorialità filantropica che impone il potere dei soldi sui veri bisogni delle popolazioni.
Finora l'approccio alla riforma è stato di impronta prevalentemente manageriale, ma la sveglia che è venuta ai governi lo scorso maggio - in primo luogo dalla società civile - ha animato la discussione e ha imposto una nuova direzione «politica» al delicato processo, che deve resistere alla tentazione privatistica.
Le consultazioni proseguiranno a Ginevra nelle prossime settimane. Si tratta di dar seguito all'impegno degli stati membri dell'Oms di guidare la riforma, a partire dall'erogazione dei fondi - e per questo una decina di stati hanno attivato una cordata. La posta in palio per la salute è altissima, e siamo solo all'inizio. Si tratta di decidere se l'Oms resterà il vero pilota delle politiche sanitarie mondiali, ovvero se farà da mero arbitro tra molti giocatori, in un campo della geopolitica globale decisamente inclinato a sfavore della salute.