CULTURA

Nei testi di Irène Nemirovsky il lutto dell'infanzia guastata

BELLO MINCIACCHI CECILIA,

C'è una battuta ricorrente, nei romanzi di Irène Némirovsky - «non ho intenzione di avere tra i piedi una figlia da marito...» -, ricorrente e crudele. A pronunciarla è sempre una madre preoccupata da rughe incipienti e indispettita di fronte alla figlia adolescente che, con la sua sola esistenza, minaccia di palesare al mondo l'età materna. Così in un attimo d'impazienza si esprime la madre di Antoinette in quel breve e affilato racconto che è Il ballo (Adelphi 2005), e così si esprime la madre di Hélène, Bella Karol, nell'ultimo romanzo pubblicato da Adelphi, Il vino della solitudine (traduzione di Laura Frausin Guarino, pp. 245, euro 18). Il conflitto tra madre e figlia è insanabile: di fronte alla quarantenne che non si rassegna, l'adolescente sente crescere il proprio potere perché ogni giorno che passa «toglie un'arma alla madre per darla alla figlia». E il legame di sangue non lenisce, rende anzi più crudele il confronto, azzera ogni pietà; la familiarità è un ostacolo viscido e virulento che amplifica la discordia. Le madri sono spesso odiose, nella narrativa di Irène Némirovsky, egoiste e vanitose, anaffettive, scopertamente ostili a figlie cui dispensano rigidità e disapprovazione. Il nodo del Vino della solitudine è un viluppo indistricabile: l'odio che una ragazzina concepisce e alleva, con lucido scrupolo, nei confronti della madre adultera. La perdita da cui quell'odio scaturisce è la mancanza primigenia, immedicabile: quella dell'amore materno, che significa la distruzione della felicità aurorale, e «un'infanzia rovinata, quella non si perdona».
Le braccia incipriate della madre
Si avverte in questo romanzo, più che in altri, l'eco sofferta di un'autobiografia: i fatti dell'infanzia di Irène premono, tendono la pelle delle pagine con una passione viscerale e lucida. È già difficile non tornare, ad ogni nuova apparizione adelphiana di Irène Némirovsky, alla vicenda biografica breve e tragica di questa donna né russa né francese, eppure tanto profondamente e indissolubilmente russa e francese, nata a Kiev nel 1903, esule nel 1917, divenuta stimata scrittrice a Parigi, e morta ad Auschwitz nel 1942, ma nel Vino della solitudine la sostanza autobiografica è tutta in primo piano. I nomi dei familiari non corrispondono, ma i ritratti calzano. Tutti lividi e agghiaccianti: dalla madre con le braccia incipriate, capricciosa e «ferocemente donna», al giovane cugino che ne diviene l'amante, al padre adorato e lontano, che caparbiamente non vuole, proprio non vuole vedere i tradimenti della moglie e si butta a testaprima nel guadagno e nel gioco, alla coppia di nonni materni, notabili in decadenza, lei dai «lineamenti sbiaditi» e lui dal «cranio sguarnito». Come annotò accanto al titolo, nell'elenco delle opere, questo romanzo è «Di Irène Némirovsky per Irène Némirovsky». Un tributo personale, più che un esercizio letterario, necessario a elaborare il lutto dell'infanzia guastata.
Stilisticamente il romanzo è meno essenziale di altri suoi testi, è descrittivo, più incline a dipingere particolari, soprattutto mutamenti del paesaggio caricati di valenza metaforica storica e sentimentale e percezioni fisiche della protagonista: i suoni della rivoluzione, gli odori e gli spazi inebrianti della fuga, Pietroburgo, «città di fumo» che si disgrega «sotto il peso delle acque», la palpabilità della nebbia che confonde tutto - natura e ideologia - in una mirabile passeggiata in cui Hélène perde per sempre la sua mite e premurosa governante che si allontana vaneggiando ingiustamente licenziata, mentre la rivoluzione incalza, e i soldati per mangiare squartano cavalli, i nobili si camuffano, i borghesi s'illudono di arricchire.
Una vendetta puerile
I toni del pathos sono più esposti: c'è una materia sentimentale più vischiosa. La madre è senz'appello negativa, non sembra vera, sembra una caricatura di madre - quello che veramente per Irène era stata -; il padre troppo perduto e vulnerabile sotto una scorza di indifferenza. Il cugino troppo facile, ingenuo stereotipo di gigolò insoddisfatto e presto appesantito. Ma la fanciulla in cui si autoritrae ha doti di spietata sincerità: è sgomenta di sperimentare come si possa «essere vecchi a dodici anni», desiderosa di una vendetta puerile e raffinata che la ripaghi dell'universo aspro e torbido cui l'hanno costretta, incapace di perdono e forse «non migliore di loro».
È un romanzo di formazione in un momento storico ed esistenziale delicatissimo: nello sfacelo di un'infanzia vissuta come «un incubo angoscioso» si incuneano la rivoluzione del '17, la fuga in Finlandia, i primi turbamenti amorosi, l'approdo a Parigi. Una prova più classica di altre, più tradizionalmente narrativa. Ciò che inquieta, oggi, alla luce del destino di Irène, è la disillusa coscienza che le cose care si perdono subito e sempre, e che l'unico modo per non soffrire, per essere «forte e libera», è la durezza di non avere persone da amare.

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