CULTURA & VISIONI

BREVIARIO della crisi

ESITI DI PRATICHE FRAUDOLENTE
TONELLO FABRIZIO,

AAA cercasi editore voglioso di tradurre il rapporto della commissione d'inchiesta sul crack del 2008, The Financial Crisis Inquiry Report. Il libro è di quelli «necessari» e avrà senso anche tra dieci o vent'anni, dato che le crisi interne al sistema capitalista purtroppo si ripetono. Mentre aspettiamo che qualcuno si faccia avanti per pubblicarlo, passiamo a un libro già disponibile in italiano, La crisi della democrazia capitalista di Richard Posner, e a due altri volumi che meriterebbero di essere ugualmente offerti al lettore italiano: Griftopia di Matt Taibbi (del quale Isbn ha tradotto Smells like Dead Elephants - Rapporto dall'impero del marcio) e Fault Lines di Raghuram Rajan (di cui esiste in italiano Salviamo il capitalismo dai capitalisti).
Il libro di Posner è interessante perché mostra come, in economia, gli ultimi deterministi siano i neoconservatori americani: «Il capitalismo è darwiniano - scrive Posner, un giudice federale vicino alla scuola economica di Chicago. - Gli uomini d'affari accettano, di solito legalmente, rischi che vanno nel senso del loro interesse. Per un singolo businessman, preoccuparsi del fatto che a causa dell'instabilità del settore bancario le sue decisioni e quelle dei suoi concorrenti possano scatenare una depressione non avrebbe più senso di quanto ne avrebbe per un leone risparmiare una zebra per il timore che i leoni mangino le zebre più in fretta di quanto queste ultime riescano a riprodursi».

Tra i leoni e le zebre
Posner scrive in vari punti del libro che gli errori dai quali è nata la crisi erano «sistemici», che la depressione è il risultato della «normale attività economica» e che un «grave fallimento» del mercato fu facilitato dall'inerzia dell'amministrazione Bush e dalla sua cultura «pro-business». Un aneddoto raccontato dal libro di Jonathan Alter su Obama, The Promise, conferma quest'ultimo punto: dieci giorni dopo il collasso di Lehman Brothers, il 25 settembre 2008, ci fu una riunione alla Casa Bianca tra Bush, il segretario al Tesoro Hank Paulson, i leader del Congresso e i due candidati alla presidenza, per decidere se e come salvare le banche sull'orlo del collasso. In quella sede, Bush rimase silenzioso, quasi con la testa altrove, lasciando al solo Paulson il compito di riferire sulla crisi.
Obama apparve a tutti come l'unica persona informata, capace di comprendere la gravità della situazione, in possesso delle qualità necessarie per salvare il paese dal disastro e gli stessi leader repubblicani, in pratica, presero atto del fatto che l'elezione del candidato democratico era l'unica soluzione possibile vista la completa incompetenza di McCain; da quel momento, Bush e Paulson restarono continuamente in contatto con lui, dando per scontato che la transizione verso una presidenza Obama era già iniziata. Una presidenza, peraltro, che dava implicitamente garanzie di nascere all'insegna della continuità e non della rottura, come dimostrò immediatamente dopo le elezioni la nomina di Tim Geithner, il presidente della Federal Reserve di New York, a segretario al Tesoro.
Per Posner, tuttavia, i colpevoli non vanno cercati nel governo, nelle strutture di sorveglianza delle banche o nei singoli finanzieri. Ironizza, infatti, sui media che hanno scoperto l'avidità di Wall Street in occasione della crisi: «I giornalisti cosa pensavano che fossero, gli imprenditori?» Il sistema funziona così e il capitalismo non ha alternative. Il che sarebbe più facile da accettare se non ci fosse in tutti noi la certezza di far parte della razza delle zebre e non di quella dei leoni, per rimanere alla metafora impiegata dal gelido autore di Chicago (che peraltro non rischia di ritrovarsi a correre nella savana perché appartiene al settore pubblico e, come giudice federale, è nominato a vita).
Più che leoni, i banchieri sono per Matt Taibbi, l'autore di Griftopia, avvoltoi o iene che si nutrono della carcassa di ciò che era un tempo la grande economia americana: non a caso, il reporter di Rolling Stone aveva scritto già nel 2007 un libro intitolato Smells like Dead Elephants, ovvero «puzza come un elefante morto». Ma al banchetto non partecipano solo i big di Wall Street, quanto anche i politici, la maggior parte dei giornalisti e perfino legioni di comuni americani che sperano di «farcela» imitando i professionisti della spoliazione.
Al vertice del sistema sta Goldman Sachs, «una gigantesca piovra avvolto attorno alla faccia dell'umanità, che innesta senza sosta il suo imbuto per il sangue in qualsiasi cosa abbia odore di denaro. La storia della crisi finanziaria recente, è in realtà la storia del rapido declino e caduta di un impero americano che si è improvvisamente fatto infinocchiare, si legge come uno Who's Who di dirigenti della Goldman Sachs». In un certo senso, Taibbi condivide l'analisi «sistemica» di Posner ma da posizioni politiche opposte, tendendo a vedere Wall Street come un'entità che si è fusa da tempo con il sistema politico, a cui fornisce il personale, o di cui tira i fili come un burattinaio: «Chi sono i grandi protagonisti (della crisi)? Henry Paulson, l'ultimo segretario al Tesoro di Bush, che dirigeva Goldman e che è stato l'architetto di un piano «self-service» per trasferire migliaia di miliardi dal Tesoro a un gruppetto di suoi vecchi amici di Wall Street. Bob Rubin, l'ex segretario al Tesoro di Clinton, che ha passato ventisei anni di vita alla Goldman Sachs ed è poi diventato presidente di Citigroup, la quale a sua volta ha avuto 300 miliardi di dollari dei contribuenti nel salvataggio (voluto) da Paulson.»
La lista di Taibbi continua con John Thain di Merril Lynch, Robert Steel di Wachovia, i governatori delle banche centrali dell'Italia e del Canada, il presidente della borsa di New York, quello della Banca Mondiale, gli ultimi due presidenti della Federal Reserve di New York... un peccato che nessuno avesse immaginato, continua l'autore, «che in una società governata passivamente da mercati liberi ed elezioni libere, l'avidità organizzata prevale in ogni caso sulla democrazia disorganizzata». Il libro di Taibbi è certamente il più godibile, se non altro per gli epiteti che vi si trovano: per esempio, non capita tutti i giorni di veder chiamare un banchiere centrale motherfucker (che non ha in italiano un corrispettivo altrettanto sanguigno) e questo non in una canzone rap ( non risulta che Allan Greenspan, il destinatario dell'invettiva, abbia fino ad oggi querelato Taibbi). Ma Griftopia dovrebbe anche scuotere alla radice le convinzioni degli ottimisti che ancora guardano con fiducia e speranza al partito democratico: le pagine sulla dinastia Richard Daley a Chicago e sulla privatizzazione dei parchimetri a beneficio di Morgan Stanley sono semplicemente imperdibili, tanto più oggi che Bill Daley, fratello di Richard ed ex di Morgan Stanley lui stesso, è diventato il capo di gabinetto di Obama.
Ma il libro più utile per capire le origini della crisi è l'ultimo di questo nostro sentiero di lettura: l'autore è Raghuram Rajan, un ex economista del Fondo monetario, e l'utilità deriva dal fatto che mette in connessione un fenomeno già noto - l'espansione forsennata dei mutui immobiliari e la loro trasformazione in obbligazioni di incerto valore - con un fenomeno di lungo periodo: la stagnazione dei salari medio-bassi negli Stati Uniti e l'aumento vertiginoso nella disuguaglianza.
Per quanto riguarda il forte allargamento nella forbice dei compensi, Rajan (che è un conservatore della scuola di Chicago) accetta la spiegazione avanzata da Claudia Goldin e Lawrence Katz in The Race Between Education and Technology, che individuano nella carenza di un livello di istruzione sufficiente le principali responsabilità. Il mercato del lavoro tenderebbe a premiare i (pochi) lavoratori qualificati a danno degli altri. Scrive Rajan: «Le percentuali di laureati tra i giovani maschi nati negli anni Settanta non è superiore a quella dei giovani nati negli anni Quaranta, un fenomeno scioccante se si considera quanto più grande sia oggi la richiesta per lavoratori con un diploma universitario». Goldin e Katz segnalano in realtà anche altri fattori, tra cui l'outsourcing di produzioni industriali verso i paesi in via di sviluppo, l'aumento dell'immigrazione, il calo della sindacalizzazione e la perdita di valore reale del salario minimo. Tutti e tre questi economisti sembrano sottovalutare il ruolo attivo svolto della politica, almeno da Reagan in poi, nel favorire la concentrazione dei redditi nell'1% più ricco delle famiglie.
Per quel che riguarda le origini delle disuguaglianze negli Stati Uniti, Paul Krugman sostiene, per fare un solo esempio, che le tecnologie informatiche del lungo periodo diminuiranno la richiesta di lavoratori altamente qualificati proprio perché gran parte delle mansioni eseguite oggi da professionisti verranno effettuate da computer altamente sofisticati. È di pochi giorni fa la notizia che un software in grado di sostituire centinaia di avvocati nell'esame della pertinenza di documenti legali è già disponibile.

Il balletto delle carte di credito
Ma quel che più interessa è il fatto che Rajan individua, giustamente, nella crisi di legittimazione che minacciava il Sogno Americano un potente fattore di innescamento del meccanismo distruttivo: «La disuguaglianza ha provocato un'ansia diffusa. Molti hanno perso ogni fiducia nella narrazione dell'America come terra delle opportunità illimitate, narrazione che in passato aveva fatto degli Stati Uniti il bastione della libertà economica. I politici hanno risposto a questi sviluppi preoccupanti con il tentativo di ricorrere a una panacea: facilitare l'accesso al credito facile da parte di chi era stato lasciato indietro dalla crescita e dal progresso tecnologico».
In altre parole, negli anni '90 e 2000, un sistema politico in cerca di consenso ha cercato di facilitare la creazione di meccanismi che permettesse alla classe media (o ai lavoratori che speravano di entrarci) di mantenere uno standard di consumi soddisfacente. Wal-Mart e i prodotti cinesi a basso costo hanno fatto la loro parte nel procurare un'apparenza di benessere ai lavoratori americani; ma il grosso del lavoro lo ha fatto il balletto delle carte di credito e i bassi tassi di interesse mantenuti dalla Federal Reserve, che hanno permesso l'esplosione del real estate.
La casa è stata, almeno fra il 1995 e il 2007, il bancomat delle famiglie americane, che contavano sull'incremento senza fine dei prezzi immobiliari per finanziare i consumi correnti. Un sistema finanziario occhiuto e avido ha fatto il resto, inventando mille e uno meccanismi per profittare della situazione, spesso in modo fraudolento (l'idea che sta dietro la concessione dei prestiti a richiedenti senza reddito era palesemente quella di pignorare la casa alla prima occasione e rimetterla sul mercato a un prezzo superiore a quello del mutuo concesso). E ora? Il crollo del settore immobiliare, i milioni di case pignorate, la disoccupazione elevata e la necessità di pagare i debiti arretrati non possono essere cancellati dai titoli ottimistici dei giornali. Forse sarebbe opportuno ascoltare le conclusioni di Rajan: «Gli Stati Uniti dovranno accontentarsi di un periodo di crescita relativamente lenta. (...) Un'alta disoccupazione che permane a lungo aumenterà le incertezze per una classe media già colpita da salari stagnanti (che) dovrà far fronte a tutto questo senza l'anestetico di prezzi della casa crescenti e di ricchezze illusorie».

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