INTERNAZIONALE

Non per fame ma per voglia di libertà

CRISI LIBICA
BUBBICO DAVIDE,

L'emigrazione libica fuori dai confini nazionali è stata da sempre un'emigrazione in buona parte per motivi di studio. Nei tradizionali flussi migratori dal Nord Africa non compaiono mai libici per ragioni diverse che sono in parte da ricondurre alla distribuzione dell'occupazione in questo paese insieme e un qualche intervento di tipo welfaristico che se ben lontano da quello tradizionale è certamente diverso da quello di paesi come Egitto, Marocco o Algeria.
La presenza di così tanti lavoratori stranieri nel mercato del lavoro libico è da ricondurre a due ragioni principali. In primo luogo, la maggior parte dei libici ha un'occupazione nel settore pubblico, in secondo luogo, il paese per effetto della sua scarsa popolazione e della politica di ingresso senza visto per gli immigrati dal resto dell'Africa (almeno fino a qualche anno fa) ha determinato il consolidarsi di un mercato del lavoro secondario dove tutte le occupazioni più umili (e faticose) e a bassa remunerazione sono appannaggio di sudanesi, egiziani, ghanesi ma anche di immigrati dal Ciad, dalla Somalia, in quest'ultimo caso soprattutto donne.
Quando mi sono recato per la prima volta in Libia nel 2004, Amed, la mia guida a Tripoli mi diceva che i giovani non avevano in generale molta voglia di lavorare e che era sempre più forte la tendenza a fare affidamento alle risorse dei genitori, nonostante le tante opportunità di lavoro. Questo era comprensibile anche osservando la quantità di persone con un doppio lavoro, il primo da svolgere (o non svolgere) la mattina nell'ambito del settore pubblico (basti pensare che anche il più piccolo villaggio disponeva di un centro ospedaliero e di altri uffici pubblici), il secondo da svolgere privatamente, spesso per medici, insegnanti e professionisti in genere, nell'ambito dei servizi privati. Una secondo impiego, in genere, giustificato dalla necessità di accumulare denaro per la pensione, ma naturalmente anche per altri e comprensibili motivi considerato che comunque gli stipendi pubblici sono molto bassi. In Libia, di fatto, non esistono sussidi di disoccupazione, non esistono per i libici e ancora di più per i tanti immigrati. La ragione è che lo Stato nella maggior parte dei casi assicura un lavoro e quando proprio ciò non è possibile l'alternativa è tra il servizio militare e una specie di servizio civile, che somiglia questo sì ad una forma di sussidio indiretto.
Il lavoro immigrato africano è spesso utilizzato in condizioni di quasi schiavitù. In parte ha un carattere stagionale, ad esempio, quello in agricoltura ed è funzionale ad accumulare risparmi nell'attesa di emigrare in Europa. Diverso è quello delle altre nazionalità. In questi caso i flussi sono il risultato di accordi informali a livello governativo o della presenza di investimenti in opere pubbliche o di altro tipo da parte di paesi come la Corea del Sud o di altri paesi asiatici. Ad Al-Arawabi, il locale ospedale era composto in prevalenza da personale medico e infermieristico della Corea del sud. Coreana è anche l'unica industria di assemblaggio di auto presente nel paese.
Quando vi sono tornato, più di recente, anche per effetto della maggiore apertura al turismo internazionale, le attività edili intorno a Tripoli (alberghi, residenze, negozi) erano significativamente cresciute e in questi cantieri la manodopera era integralmente straniera. Come nella maggior parte dei paesi di forte immigrazione, e la Libia è tra questi, la segmentazione del mercato del lavoro immigrato è molto evidente: gli egiziani sono spesso sarti, i sudanesi e gli immigrati dal Ciad lavorano nelle officine meccaniche o nell'edilizia, altri, come i marocchini, sono specializzati nel piccolo commercio ambulante.
Si potrebbe sostenere che l'assenza di opportunità di lavoro e di reddito, nonostante il gigantesco accentramento di risorse economiche nel clan di Gheddafi, è stato compatibile finora con opportunità di impiego per la maggior parte della popolazione anche se con molte restrizioni, anche sul piano delle possibilità effettiva di crescere significativamente il proprio reddito. Non è un caso che all'inizio di gennaio di quest'anno il Ministero dell'Economia libico si sia apprestato a diffondere un rapporto in cui si scrive che l'economia nazionale può offrire centomila nuovi posti di lavoro l'anno, un datom sicuramente esagerato, ma vero almeno per una parte se sono veri alcuni provvedimenti di legge che nel corso del 2010 hanno snellito le procedure per l'avvio di attività commerciali, per gli investimenti in generale, le attività di leasing, i rapporti di lavoro. Come riporta il comunicato dell'Ansa del 12 gennaio scorso, nel rapporto si poteva inoltre leggere come la Libia intenda «diversificare l'economia aumentando gli introiti da settore non petrolifero fino al 70% nei prossimi dieci anni; aumentare il tasso di crescita del prodotto interno lordo fino ad almeno l'8% e fornire 100.000 posti di lavoro l'anno». Il rapporto del Ministero continuava poi con l'enumerare la nascita di aree industriali (60 quelle già esistenti o in procinto di essere costruite) che dovevano assicurare più di 20 mila posti di lavoro per effetto di 252 investimenti industriale di cui una parte già attivi. Alla diversificazione dell'economia dovrebbe poi contribuire in futuro anche la scoperta di «consistenti quantità di materie prime», come il ferro, che «permetteranno lo sviluppo di una industria strategica».
Rispetto a quanto scritto finora non voglio sostenere che l'occupazione e le forme di distribuzione del reddito non rappresentino un problema, anzi lo sono per certi versi di più proprio per la ricchezza del paese, ma credo piuttosto che il carattere fortemente repressivo del regime, l'elevato controllo poliziesco della popolazione e la marginalità della Cirenaica nella distribuzione delle risorse nazionali, sono probabilmente, a differenza di quanto accade nei paesi confinanti, le ragioni più forti dell'insurrezione di queste ultime settimane.
* Università di Salerno

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