TERRITORI

Le gambe DELL'ECONOMIA

altra italia
ANGELINI FEDERICA,FAENZA

Non servirà a trovare una soluzione per le lavoratrici, ma di sicuro è utile per far sì che la vicenda Omsa non passi sotto silenzio e senza lasciar traccia, come se fosse normale chiudere una fabbrica che funziona e che da decenni garantisce centinaia di posti di lavoro, soprattutto femminile, a un intero territorio. Il seminario «Le gambe dell'economia» organizzato da Magistratura Democratica e Avvocati giuslavoristi dell'Emilia Romagna venerdì 21 gennaio, nella sala consiglio comunale che si affaccia sulla magnifica piazza del Popolo di Faenza è servito a mettere a fuoco cause e conseguenze delle delocalizzazioni e a focalizzare lacune e ritardi della nostra giurisdizione in materia.
Accanto a spettacoli teatrali e manifestazioni sindacali, la mobilitazione in favore delle oltre trecento lavoratrici dello storico stabilimento di calze, proprietà di Golden Lady, che è stato di fatto delocalizzato in Serbia, ha così visto la partecipazione del mondo accademico e giuridico, che ha cercato di porre la vicenda faentina nella più complessa ottica della globalizzazione contemporanea. Perché di delocalizzazioni, come ha spiegato Pasquale Liccardo (presidente sezione del Tribunale di Bologna) l'Italia ne ha conosciute fin dagli anni Cinquanta e ne ha addirittura incentivate, perché negli anni del boom le grandi aziende che aprivano stabilimenti all'estero lo facevano in un'ottica espansiva virtuosa, andando alla ricerca di nuovi mercati e ampliando la propria sfera d'azione, lasciando in Italia il nucleo produttivo.
Oggi, invece, la delocalizzazione è diventata «sottrattiva» o «privativa» e se per alcuni popoli è motivo di speranza e di sviluppo, deve comunque rappresentare il contesto per una politica di redistribuzione del reddito che si leghi a doppio filo al tema della democrazia. Un fenomeno certamente aggravato dalla crisi, ma che esiste da prima e a prescindere. Il caso di scuola è proprio quello dell'Omsa che non chiude per mancanza di ordinativi, ma semplicemente alla ricerca di condizioni di mercato e costi del lavoro più convenienti. E questo nonostante in questi anni si sia sempre più affermata, anche in economia aziendale, una visione dell'impresa che la vede in relazione al territorio, inserita in una rete interdipendente da cui trae la sua stessa competitività e redditività. Non solo, le scuole di pensiero più accreditate vedono in quegli elementi impalpabili eppure reali dell'impresa il suo vero valore, anche in termini di valutazione sul mercato. Lo ha spiegato Paolo Bastia, docente di economia aziendale all'Università di Bologna, dicendo come management, best practices, know-how, condivisione degli obiettivi e dei processi da parte di tutti i lavoratori, ma anche etica sociale (da cui il diffondersi, per esempio, dei bilanci sociali), rispetto delle pari opportunità, reputazione e consenso siano elementi di economicità dell'azienda stessa. Sempre meno è il singolo prodotto a contare, sempre più l'insieme di processi che a quel prodotto hanno portato ma che, soprattutto, potranno portare ad altri. Tutti elementi che una "semplicistica" delocalizzazione come quella cui si sta assistendo a Faenza rischia di compromettere irrimediabilmente, portando forse benefici a breve termine sui costi, ma non sul medio-lungo periodo. La delocalizzazione, quindi, vista anche come strategia di corto respiro perdente non solo per il territorio e per i lavoratori, ma anche per l'imprenditore. Peccato che Nerino Grassi, patron di Golden Lady, non abbia voluto ascoltare ragioni e non abbia nemmeno chiesto o proposto nulla in cambio della sua permanenza. Non ci sono stati referendum "alla Mirafiori" a Faenza, nessun aut, aut. Solo un impegno strappato da sindacati ed enti locali a cercare un compratore.
Perché di fatto gli imprenditori sono liberi di andarsene quando e come voglio e nonostante questo, il diritto del lavoro pare aver rimosso il tema. La denuncia esplicita arriva da Patrizia Tullini, docente del diritto del lavoro all'Università di Bologna. Si è evitato di affrontare il nodo centrale che vede la contrapposizione tra il capitale, globale, e la forza lavoro che ha un carattere necessariamente locale, un vincolo questo che rende i lavoratori più deboli rispetto appunto ai rischi della globalizzazione. Tanto da farle dire che si stia assistendo a un processo di ridimensionamento sia economico che giuridico del lavoro. La ricetta più praticabile che indica Tullini è quella di nuovi e rivisti «patti territoriali» che impegnino imprenditori ed enti pubblici, mentre si è mostrata scettica sul tema dell'azienda etica (i bilanci sociali, spiega, sono stati spesso il mezzo con cui grandi multinazionali hanno potuto unilateralmente stabilire i termini contrattuali con i propri dipendenti). La sensazione, dice Tullini, è quella di trovarsi a un passaggio cruciale in cui sia necessario porre un argine allo «shopping sulla spesa sociale» che oggi possono fare le aziende approfittando di quelle realtà in cui si spende per incentivare l'insediamento di aziende facendo di fatto del dumping verso le realtà che fanno scelte diverse. Oggi, paradossalmente, si sono ribaltati i termini del «rischio d'impresa» che, con la delocalizzazione, sono completamente scaricati sui lavoratori.
Un effetto dovuto anche a un altro «shopping», quello «dei diritti», espressione usata dal costituzionalista Andrea Morrone, secondo il quali i processi di delocalizzazione si inseriscono nel venir meno del rapporto tradizionale tra Stato, sovranità, territorio, cittadinanza. Oggi al singolo è permesso andare in cerca del diritto che più gli torna utile in una data situazione, slegando in questo modo quel rapporto intrinseco tra doveri e diritti che è insito nella nostra Costituzione. I processi in atto infatti si inseriscono nella cristi tutta interna allo stato sociale, ormai incapace di prendere in carico le relazioni socioeconomiche tra i soggetti, mentre da un lato assistiamo a un indebolimento sempre maggiore del confine tra pubblico e privato (dimostrato dal fatto che un'agenzia di rating può condizionare più di quanto deliberato da un'assemblea elettiva), dall'altro a un proliferare di fonti del diritto come le authorities che tendono a sostituirsi a organi legislativi e anche agli organi della giurisdizione. Ecco perché c'è bisogno di riportare al centro del dibattito una nuova domanda di governo dei conflitti, superando il deficit tutto politico che stiamo vivendo e cercando una strategia per un nuovo diritto della cittadinanza e una nuova idea di coesione sociale.
Ma la politica, lo sappiamo, è in altre faccende affaccendata e tra i meriti che ha avuto il seminario, come è stato sottolineato in uno degli ultimi interventi, c'è stato sicuramente quello di "distrarre" i presenti dal tema che sta inevitabilmente monopolizzando mass media e vita politica per parlare finalmente di lavoro, democrazia e diritti.

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