Iniziare l'anno con un titolo della fine del XX secolo, per giunta in prima esecuzione europea, è per l'Opera di Roma una dimostrazione di coraggio. Basti ricordare le ridicole polemiche che accompagnarono Le Gran Macabre di Ligeti, allestito dalla Fura dels Baus due stagioni or sono. L'opera prescelta, A view from the bridge di William Bolcom, ha già avuto una prima a Hagen, in Germania (ma in lingua tedesca) e forse chi l'ha scelta conosceva i gusti poco avventurosi del pubblico romano.
L'opera infatti ha già acceso le platee tutt'altro che progressiste di Chicago nel 1999 e del Metropolitan di New York nel 2003. Prima ragione fra tutte, l'idioma musicale di Bolcom, sintetizzato in decenni di esperienza creativa: nato a Seattle nel 1938, un ricco catalogo all'attivo con tanto di premio Pulitzer nel 1988, Bolcom ha saputo attraversare stili e correnti, dalla dodecafonia al ragtime, con una cifra eclettica, anti-ideologica, all'insegna di un sapido sincretismo. La fedeltà alla commedia Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller - l'asciutto libretto è firmato da Miller e da Arnold Weinstein, collaboratore di lunga data del compositore - garantisce in sé l'altro elemento di sicura presa sul pubblico. La scrittura di Bolcom, fluida e sicura, svela influenze che rimontano alla tradizione operistica italiana, al musical (c'è anche uno «standard» tenorile ben confezionato, New York Lights), con riferimenti anche alle esperienze di Barber e Menotti. Se la musica raramente trascina, è però vincente la sua capacità di ancorarsi saldamente ai meccanismi drammaturgici di ossessione e ipocrisia che agitano l'intero dramma: il devastante turbamento sessuale di uno zio verso la nipote ormai adulta, che, nei sui tragici sviluppi, racconta in filigrana anche la difficile integrazione di una comunità di immigrati italiani a Brooklyn.
A fianco del protagonista Eddie Carbone, la moglie Beatrice, rosa dalla indifferenza sessuale dell'uomo e i due giovani, proiettati verso un possibile futuro a stelle e strisce, la nipote Elisabeth e il clandestino Rodolfo. È il biondino dalla voce di tenore che Eddie detesta, canzonandone effeminatezza e origini miserabili. Il matrimonio fra la ragazza e il clandestino fa esplodere la gelosia di Eddie, che denuncia Rodolfo alla polizia, rompendo ogni codice d'onore.
L'epilogo è segnato, sarà il fratello del giovane a uccidere Eddie, per vendetta. Alfieri, avvocato e confidente di Eddie è il narratore della vicenda, mentre la massa corale si staglia quasi come un coro greco, dando voce ora ai giudizi del vicinato, ora alle pulsioni dell'anima sconvolta di Eddie. Bruno Bartoletti, che come direttore artistico del Lyric Opera di Chicago aveva commissionato l'opera, non ha potuto dirigerla per via di un'indisposizione. Il suo ottimo lavoro è stato raccolto in corsa da David Levi, che ha portato a termine il compito con determinazione e slancio.
Lo spettacolo di Frank Galati, ripreso da Amy Hutchison, si avvale di un impianto scenico scarno e efficace nella divisione degli spazi (scene e costumi di Santo Loquasto) ma soprattutto delle belle proiezioni in bianco e nero di Wendall K Harrington, che restituiscono nella loro epicità le atmosfere dei bassifondi newyorkesi. Soddisfacente il cast, in particolare l'ottimo Kim Josephson (Eddie Carbone), la coppia dei giovani, Amanda Squitieri (Catherine) e Marlin Miller (Rodolfo) e John De Carlo (Alfieri); con loro, ugualmente validi, Dale Travis, Gregory Bonfatti, Marc McCrory. Buone le prove di orchestra e coro, quest'ultimo avvantaggiato, per una volta, da qualche eccesso «latino» nella pronuncia inglese. Successo caloroso alla prima e pubblico in crescita nelle repliche.